La sua voce risuonava piccola e vivace attraverso le lettere tonde, vergate con la biro; vorticava nella luce del sole insieme alle particelle di polvere. Katy, morta da un anno, le ossa nel cimitero grigio e geometrico di Knocknaree. Avevo pensato pochissimo a lei dalla fine del processo. Anche durante l'indagine, a essere franchi, aveva occupato un posto molto meno importante di quanto sarebbe stato ipotizzabile. La vittima è la persona che non conoscerai mai. Katy era stata solo una somma di immagini trasparenti e in conflitto, riflesse attraverso le parole di altre persone, importante non di per sé ma per la sua morte e per la scia di fuochi d'artificio di conseguenze che si era lasciata dietro. Un solo momento allo scavo di Knocknaree aveva cancellato qualsiasi altra cosa fosse mai stata. Ripensai a lei, distesa su quel pavimento di legno chiaro, le fragili ali delle sue scapole che si muovevano al ritmo della scrittura, con la musica che le si diffondeva intorno.
«Avrebbe fatto qualche differenza se l'avessimo trovato prima?» chiese Simone. La sua voce mi fece sussultare e aumentare il battito cardiaco. Mi ero quasi dimenticato della sua presenza.
«Probabilmente no» risposi. Non sapevo se sarebbe stato effettivamente così, ma era ciò che lei aveva bisogno di sentirsi dire. «Non c'è nulla qui che colleghi direttamente Rosalind a un crimine. C'è scritto che le faceva bere delle cose, ma se la sarebbe cavata comunque, avrebbe sostenuto che si trattava di una bevanda a base di vitamine. Stessa cosa per il portafortuna; non prova nulla.»
«Ma se l'avessimo trovato prima che morisse» insistette con tono pacato Simone, «allora sì.» Non c'era nulla che potessi dire al riguardo, nulla di nulla.
Infilai il diario e la piccola tasca di carta in un sacchetto per le prove e li inviai a Sam, al Castello di Dublino. Sarebbero finiti in una scatola nel seminterrato, da qualche parte vicino ai miei vecchi vestiti. Il caso era chiuso, non potevamo farcene più nulla a meno che, o fino a quando, Rosalind non avesse fatto la stessa cosa a qualcun altro. Mi sarebbe piaciuto mandare il diario a Cassie, come forma di scuse mute quanto inutili, ma non si trattava più nemmeno di un caso suo e comunque non ero più certo che avrebbe capito la mia motivazione.
Alcuni mesi dopo mi dissero che Cassie e Sam si erano fidanzati. Bernadette mandò una e-mail circolare per raccogliere fondi per un regalo. Quella sera raccontai a Heather che il figlio di non so chi aveva la scarlattina e mi chiusi in camera dove mi scolai vodka, lentamente ma con metodo, fino alle quattro del mattino. Poi chiamai Cassie sul cellulare.
Al terzo squillo rispose, con la voce impastata: «Maddox».
«Cassie» dissi. «Cassie, non sposerai quel noioso campagnolo, vero?»
La sentii prendere fiato, come per prepararsi a dire qualcosa, ma poi lo lasciò uscire di nuovo.
«Mi dispiace» proseguii. «Per tutto. Mi dispiace così tanto. Ti voglio bene, Cass. Ti prego.»
Attesi ancora. Dopo un po', udii un colpo, quindi Sam che in sottofondo chiedeva: «Chi era?».
«Sbagliato numero» disse Cassie, ancora più lontana. «Un tipo ubriaco.»
«Allora perché sei rimasta tanto al telefono?» Si sentiva che stava scherzando, che la stuzzicava. Fruscio di lenzuola.
«Mi ha anche detto che mi ama, così volevo vedere chi era» rispose Cassie. «In realtà cercava Britney.»
«Come tutti noi, del resto» disse Sam. Poi: «Ahia!» e Cassie che ridacchiava. «Certo che mordi, tu, eh?»
«Ti sta bene» fece Cassie. Risate basse, fruscio, un bacio, un lungo sospiro soddisfatto, Sam che mormorava felice: «Piccola». Poi più nulla se non i loro respiri che scemavano lentamente verso il sonno.
Rimasi seduto a lungo a osservare il cielo che rischiarava fuori dalla finestra, realizzando d'un tratto che sul cellulare di Cassie non era apparso il mio nome. Sentivo la vodka che si faceva strada nel mio sangue, il mal di testa che cominciava a premere alle porte. Sam russava, piano. Non ho mai saputo se Cassie avesse creduto di avere riattaccato o se avesse voluto ferirmi, o se avesse voluto farmi un ultimo regalo, un'ultima notte ad ascoltarla respirare.
Com'era da prevedere, l'autostrada andò avanti sul tracciato originario. "Spostiamo l'autostrada" era riuscita a bloccarla abbastanza a lungo con ingiunzioni, appelli costituzionali, ricorsi perfino alla Corte Europea, credo, ma andò avanti. Uno sgangherato gruppo di dimostranti, che con un abile gioco di parole si faceva chiamare Knocknafree (sono pronto a scommettere che fra loro ci fosse anche Mark), piantò un accampamento in mezzo al sito per fermare i bulldozer. Ci riuscì per qualche altra settimana, fino a quando il governo non ottenne un ordine del tribunale. Non c'era mai stata speranza per loro. Mi sarebbe piaciuto chiedere a Jonathan Devlin se credeva sul serio, a dispetto di tutti i ricorsi storici, che questa volta l'opinione pubblica avrebbe fatto la differenza, oppure se aveva sempre saputo come sarebbe andata a finire ma aveva voluto provarci lo stesso. In ogni caso, lo invidiavo.
Il giorno in cui lessi sui giornali che erano iniziati i lavori, mi precipitai. Teoricamente, dovevo essere a Terenure per un porta-a-porta, alla ricerca di qualcuno che avesse visto un'auto rubata usata per una rapina, ma nessuno avrebbe sentito la mia mancanza per un'ora o due. Non so bene perché ci andai. Non si trattava del drammatico finale di un caso da chiudere, nulla del genere. Era il semplice e ritardato impulso di vedere quel posto un'ultima volta.
M'ero aspettato che ci fosse disordine, ma non uno sconquasso di quelle dimensioni. Sentii il ruggito dei macchinari molto prima di arrivare in cima alla collina. L'intero sito era irriconoscibile, uomini con casacche fosforescenti che sciamavano come formiche e che gridavano ordini inintelligibili per il rumore, mastodontici bulldozer incrostati di fango che spostavano da una parte all'altra grandi quantitativi di terra girando attorno con oscena delicatezza ai resti delle mura.
Parcheggiai sul lato della strada e scesi dall'auto. C'era un piccolo assembramento di scoraggiati dimostranti nella piazzola di sosta. Quella almeno era rimasta intatta, per il momento. Il castagno continuava a lasciar cadere i suoi frutti. La gente che si era radunata aveva cartelli con scritte a mano come "Salviamo il nostro patrimonio" e "La storia non è in vendita" nel caso che si fossero fatti vivi i giornali. La terra che era stata rivoltata e divelta sembrava estendersi all'infinito, occupare un'area che era molto più grande del sito archeologico vero e proprio. Poi capii: l'ultima striscia di bosco era scomparsa quasi del tutto. C'erano tronchi segati, radici esposte che si protendevano follemente verso il cielo grigio. Le motoseghe attaccavano senza posa gli ultimi alberi rimasti.
Il ricordo mi colpì al petto con una tale potenza che rimasi senza fiato: l'arrampicata sul muro del castello, i pacchetti di patatine che crepitavano nella maglietta, il rumore del fiume che gorgogliava più in basso, da qualche parte, la scarpa da ginnastica di Peter che cercava un punto di appoggio poco più in alto di me, i capelli biondi di Jamie che ondeggiavano tra le foglie… Tutto il mio corpo ricordò: la sensazione ruvida e familiare della pietra contro il palmo della mano, lo sforzo del muscolo della coscia quando mi spingevo su, verso il turbinio di verde e di luce… Mi ero così abituato a pensare al bosco come all'invincibile nemico in agguato, all'ombra che ricopriva ogni angolo segreto della mia mente. Mi ero completamente dimenticato che, per gran parte della mia vita, era stato il nostro parco giochi preferito e il nostro adorato e bellissimo rifugio. Me ne ricordavo ora che lo stavano abbattendo.
Ai margini del sito, nei pressi della strada, uno degli operai aveva tirato fuori un pacchetto di sigarette tutto schiacciato da sotto il corpetto arancione e si stava tastando con metodo le tasche alla ricerca dell'accendino. Trovai il mio e andai da lui.
«Grazie, figliolo» disse, con la sigaretta fra i denti e le mani a coppa intorno alla fiamma. Era sulla cinquantina, piccolo e forte, con la faccia da terrier: amichevole, non impegnativa, con sopracciglia cespugliose e grossi baffi a manubrio.
«Come sta andando?» chiesi.
Scrollò le spalle, aspirò il fumo e mi rese l'accendino. «Ah, be', ho visto di peggio. Grosse pietre maledette ovunque, tutto qua.»
«Magari vengono dal castello. Qui c'era un sito archeologico.»
«Come se non lo sapessimo» commentò e fece cenno verso i dimostranti.
Sorrisi. «Trovato nulla di interessante?»
Mi guardò negli occhi e capii che mi stava valutando: dimostrante, archeologo, spia del governo? «Tipo cosa?»
«Non so… pezzi archeologici, magari. Ossa di animali. Ossa umane.»
Aggrottò le sopracciglia. «Cosa sei? Un poliziotto?»
«No» mentii. L'aria aveva l'odore umido della terra smossa e della pioggia in agguato. «Due miei amici scomparvero qui, negli anni Ottanta.»
Annuì pensieroso e senza mostrarsi sorpreso. «Me lo ricordo, sì che me lo ricordo» disse. «Due ragazzini. Sei quello che era con loro?»
«Sì» risposi. «Proprio io.»
Aspirò a lungo e senza fretta dalla sigaretta e mi sbirciò con un leggero interesse. «Mi dispiace per quello che hai passato.»
«Sono trascorsi tanti anni…»
Annuì. «Che io sappia, non abbiamo trovato ossa. Magari qualcosa di conigli o volpi, ma niente di più grande. Se fosse successo avremmo chiamato la polizia.»
«Lo so» dissi. «Era per essere sicuro.»
Rimase pensieroso per un po', scrutando il sito. «Prima, uno dei ragazzi ha trovato questo.» Cercò nelle tasche, a partire da quelle in basso fino a quelle in alto, e da sotto il corpetto estrasse una cosa. «E di questo che ne pensi?»
Lasciò cadere l'oggetto nel palmo della mia mano. Era a forma di foglia, piatto, stretto e lungo circa quanto il mio pollice, fatto di un metallo liscio, reso opaco dal trascorrere del tempo. Un bordo era frastagliato, forse si era staccato da qualcosa, molto tempo prima. L'operaio aveva cercato di ripulirlo, ma aveva ancora piccole incrostazioni di terra. «Non lo so» risposi. «Forse la testa di una freccia, o un pezzo di pendente.»
«L'ha trovato nel fango attaccato agli stivali, durante la pausa caffè» continuò l'uomo. «Me l'ha dato da far vedere al bimbo di mia figlia. Quello è matto per l'archeologia.»
L'oggetto era freddo nella mano, più pesante di quanto mi sarei aspettato. Su un lato, delle incisioni ormai quasi lisce formavano un motivo. Lo orientai verso la luce: un uomo, figura appena accennata, con corna da cervo.
«Puoi tenerlo, se ti piace» disse l'uomo. «Il ragazzo non sentirà la mancanza di una cosa che non ha mai avuto.»
Serrai la mano intorno all'oggetto. I bordi mi punsero. Per effetto del mio battito, lo sentivo come palpitare. Probabilmente il suo posto era un museo. Mark ci sarebbe impazzito. «No» risposi. «Grazie. Lo dia a suo nipote.»
Si strinse nelle spalle e inarcò le sopracciglia. Gli rimisi l'oggetto in mano. «Grazie per avermelo mostrato» gli dissi.
«Nessun problema» rispose l'uomo e se lo rimise in tasca. «Buona fortuna.»
«Anche a lei» contraccambiai. Stava cominciando a venire giù una pioggerella fine e brumosa. Gettò il mozzicone nell'impronta di un pneumatico e tornò al lavoro, tirandosi su il bavero.
Mi accesi una sigaretta e rimasi per un po' a guardare gli uomini che lavoravano. L'oggetto di metallo mi aveva lasciato dei sottili segni rossi sul palmo della mano. Due bambini, tra gli otto e i nove anni, stavano in equilibrio sul muro della zona residenziale. Gli operai fecero dei cenni con le braccia e gridarono loro qualcosa. I bambini sparirono ma ricomparvero pochi minuti dopo. I dimostranti avevano tirato fuori gli ombrelli e si passavano dei sandwich informi. Osservai la scena a lungo, fino a quando il cellulare non cominciò a vibrare insistentemente nella mia tasca. Ora pioveva forte. Spensi la sigaretta, mi abbottonai la giacca e mi diressi verso l'auto.