«Grazie, figliolo» disse, con la sigaretta fra i denti e le mani a coppa intorno alla fiamma. Era sulla cinquantina, piccolo e forte, con la faccia da terrier: amichevole, non impegnativa, con sopracciglia cespugliose e grossi baffi a manubrio.
«Come sta andando?» chiesi.
Scrollò le spalle, aspirò il fumo e mi rese l'accendino. «Ah, be', ho visto di peggio. Grosse pietre maledette ovunque, tutto qua.»
«Magari vengono dal castello. Qui c'era un sito archeologico.»
«Come se non lo sapessimo» commentò e fece cenno verso i dimostranti.
Sorrisi. «Trovato nulla di interessante?»
Mi guardò negli occhi e capii che mi stava valutando: dimostrante, archeologo, spia del governo? «Tipo cosa?»
«Non so… pezzi archeologici, magari. Ossa di animali. Ossa umane.»
Aggrottò le sopracciglia. «Cosa sei? Un poliziotto?»
«No» mentii. L'aria aveva l'odore umido della terra smossa e della pioggia in agguato. «Due miei amici scomparvero qui, negli anni Ottanta.»
Annuì pensieroso e senza mostrarsi sorpreso. «Me lo ricordo, sì che me lo ricordo» disse. «Due ragazzini. Sei quello che era con loro?»
«Sì» risposi. «Proprio io.»
Aspirò a lungo e senza fretta dalla sigaretta e mi sbirciò con un leggero interesse. «Mi dispiace per quello che hai passato.»
«Sono trascorsi tanti anni…»
Annuì. «Che io sappia, non abbiamo trovato ossa. Magari qualcosa di conigli o volpi, ma niente di più grande. Se fosse successo avremmo chiamato la polizia.»
«Lo so» dissi. «Era per essere sicuro.»
Rimase pensieroso per un po', scrutando il sito. «Prima, uno dei ragazzi ha trovato questo.» Cercò nelle tasche, a partire da quelle in basso fino a quelle in alto, e da sotto il corpetto estrasse una cosa. «E di questo che ne pensi?»
Lasciò cadere l'oggetto nel palmo della mia mano. Era a forma di foglia, piatto, stretto e lungo circa quanto il mio pollice, fatto di un metallo liscio, reso opaco dal trascorrere del tempo. Un bordo era frastagliato, forse si era staccato da qualcosa, molto tempo prima. L'operaio aveva cercato di ripulirlo, ma aveva ancora piccole incrostazioni di terra. «Non lo so» risposi. «Forse la testa di una freccia, o un pezzo di pendente.»
«L'ha trovato nel fango attaccato agli stivali, durante la pausa caffè» continuò l'uomo. «Me l'ha dato da far vedere al bimbo di mia figlia. Quello è matto per l'archeologia.»
L'oggetto era freddo nella mano, più pesante di quanto mi sarei aspettato. Su un lato, delle incisioni ormai quasi lisce formavano un motivo. Lo orientai verso la luce: un uomo, figura appena accennata, con corna da cervo.
«Puoi tenerlo, se ti piace» disse l'uomo. «Il ragazzo non sentirà la mancanza di una cosa che non ha mai avuto.»
Serrai la mano intorno all'oggetto. I bordi mi punsero. Per effetto del mio battito, lo sentivo come palpitare. Probabilmente il suo posto era un museo. Mark ci sarebbe impazzito. «No» risposi. «Grazie. Lo dia a suo nipote.»
Si strinse nelle spalle e inarcò le sopracciglia. Gli rimisi l'oggetto in mano. «Grazie per avermelo mostrato» gli dissi.
«Nessun problema» rispose l'uomo e se lo rimise in tasca. «Buona fortuna.»
«Anche a lei» contraccambiai. Stava cominciando a venire giù una pioggerella fine e brumosa. Gettò il mozzicone nell'impronta di un pneumatico e tornò al lavoro, tirandosi su il bavero.
Mi accesi una sigaretta e rimasi per un po' a guardare gli uomini che lavoravano. L'oggetto di metallo mi aveva lasciato dei sottili segni rossi sul palmo della mano. Due bambini, tra gli otto e i nove anni, stavano in equilibrio sul muro della zona residenziale. Gli operai fecero dei cenni con le braccia e gridarono loro qualcosa. I bambini sparirono ma ricomparvero pochi minuti dopo. I dimostranti avevano tirato fuori gli ombrelli e si passavano dei sandwich informi. Osservai la scena a lungo, fino a quando il cellulare non cominciò a vibrare insistentemente nella mia tasca. Ora pioveva forte. Spensi la sigaretta, mi abbottonai la giacca e mi diressi verso l'auto.
Tana French