Non aveva visto nessuno, niente di insolito, neppure il tipo strambo citato da Damien. «Ma non avrei potuto comunque. Io non prendo l'autobus. Quelli di noi che non sono di Dublino abitano nella casa che ci hanno affittato, a circa quattro chilometri da qui, lungo la strada. Mark e il dottor Hunt hanno l'auto e così ci riaccompagnano loro. Non passiamo davanti alla zona residenziale.»
Il "comunque" mi colpì. Suggeriva che Mel, come me, aveva dei dubbi sulla sinistra tuta da ginnastica blu scuro. Damien mi aveva dato l'impressione di essere una di quelle persone che ti direbbero qualsiasi cosa se pensassero di farti felice. Mi pentii di non avergli chiesto se il tipo portava anche i tacchi a spillo.
Sophie e i suoi giovani tecnici avevano finito con la pietra cerimoniale e stavano allargando i controlli avanzando in cerchio. Le dissi che Damien Donnelly aveva toccato il corpo e ci si era sporto sopra. Avremmo avuto bisogno delle sue impronte e dei capelli. «Che idiota» commentò Sophie. «Immagino che dovremmo anche essergli grati di non aver coperto il cadavere con la giacca.» Sudava all'interno della tuta di carta. Alle sue spalle, un giovane tecnico strappò nascostamente una pagina dal blocco e ricominciò da capo.
Lasciammo l'auto al sito e ci avviammo a piedi, girando attorno alla zona residenziale seguendo la strada. Conservavo ancora il ricordo, da qualche parte nei miei muscoli, di quando scavalcavo il muro: dove si trovava il punto d'appoggio per il piede, il cemento che ti grattava la rotula, il colpo all'atterraggio. Cassie volle fermarsi al negozio lungo la strada; erano già le due passate e forse non avremmo avuto un'altra occasione per pranzare. Cassie mangia come un'adolescente e odia saltare i pasti. La cosa di solito mi fa piacere – le donne che vivono di misurate porzioni di insalata mi infastidiscono – ma volevo che quella giornata passasse il più in fretta possibile.
Attesi fuori dal negozio a fumare, ma Cassie ne uscì con due sandwich nelle confezioni di plastica e me ne passò uno. «Tieni.»
«Non ho fame.»
«Mangia quel dannato sandwich, Ryan. Non ti porto in braccio a casa se mi svieni.» In realtà non sono mai svenuto in vita mia, ma tendo a dimenticarmi di mangiare finché poi non divento irritabile o vado in trance, e Cassie lo sa, anche se lo trova incomprensibile.
«Ho detto che non ho fame» ripetei con una punta di piagnucolio nella voce, ma aprii la confezione. Cassie aveva ragione, era probabile che sarebbe stata una giornata molto lunga. Ci sedemmo sul bordo del marciapiede e lei estrasse una bottiglia di Coca al limone dalla sua borsa. Il sandwich, che ufficialmente doveva essere di pollo e altro ripieno, sapeva essenzialmente di plastica, e la Coca era calda e troppo dolce. Mi venne un po' di nausea.
Non voglio dare l'impressione che la mia vita sia stata segnata da ciò che è accaduto a Knocknaree, di avere vagato per vent'anni come una figura tragica dal passato oscuro che sorride tristemente al mondo da dietro un velo dolce-amaro di sigarette e ricordi. Knocknaree non mi ha lasciato in eredità incubi notturni, impotenza, paura patologica degli alberi o qualsiasi altra bella cosa che, in una fiction televisiva, mi condurrebbe da un terapeuta prima, alla redenzione poi e a un rapporto più comunicativo, infine, con una moglie che, benché frustrata, mi offre tutta la sua solidarietà. A essere sinceri, potrei andare avanti per mesi senza nemmeno pensarci. Di tanto in tanto, qualche giornale pubblica un articolo su persone scomparse e loro sono lì, Peter e Jamie, che sorridono dalla copertina del supplemento domenicale, in fotografie sgranate rese premonitrici dal senno di poi e dall'uso eccessivo, tra turisti spariti, casalinghe fuggite di casa e mormoranti schiere di perduti d'Irlanda. Vedo l'articolo e noto, con fare distaccato, che mi tremano le mani e che faccio fatica a respirare, ma si tratta di un puro e semplice riflesso fisico, e comunque dura solo pochi minuti.
Immagino che la faccenda abbia avuto i suoi effetti su di me, ma mi sarebbe impossibile, e a mio parere anche inutile, scoprire esattamente quali siano stati. Avevo dodici anni, dopotutto, un'età in cui i ragazzini sono smarriti e amorfi, si trasformano dal giorno alla notte, a prescindere dalla stabilità delle loro vite. E poche settimane dopo finii in collegio, il che mi formò e mi segnò in modo molto più drammatico ed evidente. Mi sembrerebbe ingenuo ed essenzialmente ipocrita smontare la mia personalità, prenderne un brandello e berciare: "Santi numi, guarda, questo viene da Knocknaree!". Ma ecco che ora, all'improvviso, il tutto riemergeva, beffardo e inamovibile, nel bel mezzo della mia vita, e non avevo la benché minima idea di cosa farci.
«Quella povera bimba» disse d'un tratto Cassie, fuori contesto. «Quella povera, piccola bimba.»
La casa dei Devlin era una bifamiliare con la facciata piatta e un piccolo prato verde sul davanti, come tutte le altre del quartiere, così poco particolare che non riuscivo a capire se mi fosse familiare o meno. Tutti i vicini si erano prodigati in piccole e frenetiche manifestazioni di individualismo regolando con ferocia i cespugli, piazzando gerani o altro; i Devlin invece si limitavano a tagliare il prato e lo lasciavano così, che di per sé già comunicava un certo grado di originalità. Vivendo più o meno nella parte centrale della zona residenziale, a cinque o sei strade dal sito, si erano persi l'arrivo dei poliziotti in uniforme, dei tecnici della Scientifica, del furgone dell'obitorio, tutto l'andirivieni terribile ed efficiente che da solo sarebbe bastato a fargli capire quello che c'era da capire.
Quando Cassie suonò il campanello, un uomo sulla quarantina venne ad aprire; era un po' più basso di me, cominciava ad arrotondarsi intorno alla vita, portava i capelli scuri tagliati con cura e mostrava grosse borse sotto gli occhi. Indossava un cardigan, pantaloni color cachi e teneva in mano una scodella di cereali. Avrei voluto dirgli che era tutto a posto, perché sapevo già con che cosa avrebbe dovuto confrontarsi nei mesi a venire. È il genere di situazione che la gente ricorda con strazio per tutta la vita: uno sta mangiando i cereali in casa propria quando arriva la polizia a dirgli che sua figlia è morta. Una volta ho visto una donna crollare sul banco dei testimoni, singhiozzava con tale veemenza che dovettero interrompere il processo e somministrarle un sedativo: era a lezione di yoga quando le avevano accoltellato il fidanzato.
«Signor Devlin?» chiese Cassie. «Sono il detective Maddox e questo è il detective Ryan.»
L'uomo spalancò gli occhi. «Siete della sezione Persone scomparse?» Aveva del fango sulle scarpe e i bordi dei pantaloni erano umidi; doveva essere stato fuori alla ricerca di sua figlia, da qualche parte nei campi sbagliati. Forse era rientrato per mettere qualcosa sotto i denti prima di provarci ancora, e poi ancora.
«Non esattamente» disse con dolcezza Cassie. Di solito lascio a lei questo genere di conversazioni, e non solo per codardia – questa è decisamente una delle parti peggiori del lavoro, guardare le autopsie non è niente al confronto – ma perché sappiamo entrambi che è molto più brava. «Possiamo entrare?»
Lui fissò la scodella e la posò goffamente sul tavolo dell'ingresso. Un po' di latte si versò su un mazzo di chiavi e su un berretto rosa da bambina. «Cosa volete?» chiese. La paura gli aveva fatto assumere un tono di voce aggressivo. «Avete trovato Katy?»
Udii un rumore leggero e guardai oltre le sue spalle. C'era una ragazza ai piedi delle scale che si teneva al corrimano. L'interno della casa era in penombra anche se era pomeriggio e c'era il sole, ma vidi il suo volto e fu come se fossi trafitto da una lama luminosa, qualcosa di simile al terrore. Per un inimmaginabile, vorticoso secondo mi parve di vedere un fantasma. Era la nostra vittima, la stessa ragazzina che avevamo trovato sulla pietra. Sentii un rumore assordante nelle orecchie.