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Quei bambini non diventeranno grandi, né in questa né in un'altra estate. Questo agosto non chiederà loro di trovare riserve nascoste di forza e coraggio per affrontare la complessità del mondo degli adulti e venirne fuori più tristi, più saggi e legati a vita. Questa estate farà loro altre richieste.

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Quello che vi consiglio di ricordare è che sono un detective. Il nostro rapporto con la verità è fondamentale ma incrinato, sprigiona riflessi confusi come vetro in frantumi. La verità è l'essenza delle nostre carriere, il finale di partita di ogni nostra mossa e la perseguiamo con strategie diligentemente costruite con bugie, dissimulazioni e ogni possibile declinazione dell'inganno. È la donna più desiderabile al mondo e noi gli amanti più gelosi, che ne negano per reazione a chiunque altro anche il minimo barlume. La tradiamo abitualmente, trascorriamo ore e giorni in un torpore di menzogne e poi torniamo a lei brandendo l'ultimo nastro di Möbius dell'amante: l'ho fatto solo perché ti amo alla follia.

Me la cavo piuttosto bene con le immagini, soprattutto quelle spicce, un po' banali. Non lasciatevi fregare da me, la nostra categoria non è una banda di cavalieri parfit gentil con tanto di farsetto, lanciati all'inseguimento della Signora Verità sul suo destriero bianco. Quello che facciamo è rozzo, grossolano e brutto. Una giovane fornisce l'alibi al suo ragazzo per la sera in cui lui è sospettato di avere rapinato uno dei negozi Centra, quelli sempre aperti che vendono un po' di tutto, su a nord, e di avere accoltellato il commesso: all'inizio flirto con lei, le dico che capisco perché lui voglia restare a casa, con la fidanzata che si ritrova. La tipa in questione ha i capelli ossigenati e unti, i tratti poco marcati e un che di rachitico dovuto a generazioni di malnutrizione. Tra me e me penso che se fossi il suo fidanzato non esiterei a scambiarla persino con un compagno di cella peloso che chiamano Rasoio. Poi le dico che nei pantaloni della sua tuta bianca così di classe abbiamo trovato delle banconote segnate provenienti da quel negozio e che lui sostiene che è stata lei a uscire quella sera e a dargliele quando è rientrata.

Lo faccio in maniera così convincente, con appena un'ombra di disagio e compassione per il tradimento del suo uomo, che alla fine la certezza di quattro anni trascorsi insieme a lui si disintegra come un castello di carte, e tra lacrime e moccio, mentre lui nella stanza degli interrogatori a fianco se ne sta con il mio collega e non fa altro che dire: «Vaffanculo, io ero a casa con Jackie», lei mi racconta tutto, dall'ora in cui è uscito di casa ai dettagli delle sue défaillance sessuali. Allora le do una pacchetta gentile sulla spalla e le offro un fazzolettino di carta e una tazza di tè, senza dimenticare il modulo con la dichiarazione.

Questo è il mio lavoro e non lo cominci nemmeno, oppure, se lo fai, non duri, senza una specie di naturale affinità con le priorità e le richieste che impone. Quello che sto cercando di dirvi, prima che vi mettiate a leggere la mia storia, è che… be', sono due cose: io desidero ardentemente la verità. E mento.

Ecco cosa lessi nel fascicolo, il giorno dopo essere stato promosso al grado di detective. Tornerò un sacco di volte su questa vicenda, in molti modi diversi. Forse è un evento minore, ma è il mio: è l'unica storia al mondo che solo io potrò raccontare.

Il pomeriggio del 14 agosto 1984, tre bambini, Germaine (Jamie) Elinor Rowan, Adam Robert Ryan e Peter Joseph Savage, tutti di dodici anni, stavano giocando nella strada dove abitavano, nella cittadina di Knocknaree, contea di Dublino. Era un giorno caldo e limpido e molti residenti erano in giardino, perciò furono innumerevoli i testimoni che videro i ragazzini in più occasioni nel corso del pomeriggio, in equilibrio sul muro in fondo alla strada, in sella alle loro biciclette, o su un dondolo fatto con un copertone.

All'epoca, Knocknaree non era molto sviluppata e un bosco piuttosto esteso confinava con l'abitato, separato solo da un muro di un metro e mezzo. Intorno alle 15.00 i tre bambini lasciarono le bici nel giardino davanti alla casa dei Savage, dicendo alla signora Angela Savage, che stava stendendo il bucato, che sarebbero andati a giocare nel bosco. Lo facevano spessissimo e conoscevano molto bene quella zona, così la signora Savage non si preoccupò che potessero perdersi. Peter aveva al polso un orologio e la madre gli ricordò di essere a casa per le 18.30, ora di cena. La conversazione venne confermata dalla vicina, la signora Mary Therese Corry, e molti testimoni videro i bambini scavalcare il muro in fondo alla strada e addentrarsi nel bosco.

Quando alle 18.45 Peter Savage non era ancora rientrato, sua madre chiese notizie alle madri degli altri due compagni, dando per scontato che fosse andato a casa di uno di loro. Ma neanche gli altri erano tornati. Di solito Peter Savage era un bambino affidabile, ma i genitori non si allarmarono perché convinti che i ragazzini, completamente assorbiti dal gioco, avessero dimenticato di controllare l'ora. Cinque minuti prima delle 19, la signora Savage si incamminò verso il bosco, in fondo alla strada, vi si addentrò per un breve tratto e li chiamò. Non udì risposta né vide o sentì qualcosa che potesse indicare che vi fosse qualcuno nelle vicinanze.

Tornò a casa per servire la cena al marito, Joseph Savage, e ai loro quattro figli minori. Dopo cena, il signor Savage e il signor John Ryan, padre di Adam Ryan, si spinsero un po' più in là nel bosco, chiamarono e di nuovo non ricevettero risposta. Alle 20.25, quando già cominciava a fare buio, i genitori iniziarono seriamente a preoccuparsi che i bambini potessero essersi persi e la signorina Alicia Rowan (madre single di Germaine), che disponeva di un telefono, chiamò la polizia.

Ebbero inizio le ricerche. A quel punto il timore era che i bambini fossero scappati di casa. La signorina Rowan aveva deciso che Germaine avrebbe frequentato un collegio a Dublino per restarvi durante la settimana e tornare a Knocknaree solo il sabato e la domenica; sarebbe dovuta partire due settimane dopo e tutti e tre i bambini erano particolarmente turbati al pensiero dell'imminente separazione. Tuttavia, una prima perquisizione nelle stanze dei ragazzini rivelò che non mancavano né abiti, né denaro, né oggetti personali. Il salvadanaio di Germaine, a forma di matrioska, era intatto e conteneva 5 sterline e 85 centesimi.

Alle 22.20, un poliziotto con una torcia trovò Adam Ryan in una zona particolarmente fitta di alberi e vegetazione, al centro del bosco, in piedi con la schiena e le palme delle mani contro una grossa quercia. Le unghie erano conficcate così in profondità nel tronco che si erano spezzate all'interno della corteccia. Sembrava essere lì da un po', ma non aveva risposto ai richiami del gruppo di ricerca. Venne trasportato all'ospedale. Fu fatta intervenire l'Unità cinofila e i cani seguirono le tracce degli altri due bambini fino a un punto non lontano da quello in cui era stato trovato Adam Ryan; poi cominciarono a confondersi e non riuscirono a proseguire.

Quando mi trovarono indossavo un paio di calzoncini blu di tela, una maglietta bianca a maniche corte, calzini bianchi di cotone e scarpe da ginnastica, bianche anche quelle. Sulle scarpe c'erano numerose chiazze di sangue, sui calzini un po' meno. Le successive analisi della modalità di diffusione delle chiazze rivelarono che il sangue era passato dall'interno delle scarpe all'esterno: c'era infatti sangue anche dentro i calzini ma in concentrazioni inferiori. Questo significava che le scarpe mi erano state tolte e che il sangue vi era finito dentro; solo dopo, quando il sangue aveva iniziato a coagularsi, le scarpe mi erano state rimesse ai piedi, trasferendo il liquido ematico ai calzini. La maglietta presentava quattro strappi paralleli, tra gli otto e i tredici centimetri, che correvano diagonalmente lungo la schiena dalla zona mediana della scapola sinistra alle costole posteriori destre.

Non avevo ferite, tranne qualche piccolo graffio sui polpacci, schegge sotto le unghie, che in seguito vennero ritenute compatibili con il legno della quercia, e profonde abrasioni sulle ginocchia, dove già iniziavano a formarsi delle croste. Si discusse se i graffi me li fossi procurati nel bosco oppure no, poiché una bambina più piccola (Aideen Watkins, 5 anni), che stava giocando in strada, affermò di avermi visto cadere dal muro quel giorno, qualche ora prima, e atterrare proprio sulle ginocchia; tuttavia, la sua dichiarazione cambiò nel corso dei vari interrogatori e non venne più considerata affidabile. Io ero praticamente in uno stato catatonico: per quasi trentasei ore non feci un solo movimento volontario e non parlai per le due settimane successive. Quando finalmente aprii bocca, non avevo ricordi tra il momento in cui ero uscito di casa, quel pomeriggio, e il momento in cui mi avevano visitato in ospedale.