Il sangue trovato su scarpe e calzini fu analizzato per individuarne il gruppo – l'analisi del DNA non era disponibile in Irlanda nel 1984 – e si scoprì che era di tipo A positivo. Anche il mio sangue era di tipo A positivo, tuttavia si ritenne improbabile che le abrasioni sulle ginocchia, per quanto profonde, avessero prodotto una quantità di sangue tale da impregnare in quel modo le scarpe da ginnastica. Il sangue di Germaine Rowan era stato analizzato due anni prima in occasione di un'appendicectomia e la cartella riportava anche per lei A positivo. L'ipotesi che il sangue appartenesse a Peter Savage, sebbene non vi fossero dati disponibili, fu scartata: entrambi i suoi genitori, si scoprì, appartenevano al tipo 0 e questo rendeva impossibile che lui fosse di qualsiasi altro gruppo. In assenza di un'identificazione certa, gli investigatori non poterono non tenere in considerazione la possibilità che il sangue fosse di un quarto individuo, né che provenisse da più fonti.
La ricerca continuò per tutta la notte del 14 agosto, e nelle settimane che seguirono squadre di volontari passarono al setaccio le colline e i campi vicini; tutti gli acquitrini e le zone paludose dell'area vennero esplorati, i sommozzatori scandagliarono il fondale del fiume che attraversava il bosco, senza alcun risultato. Quattordici mesi dopo, il signor Andrew Raftery, che si trovava a passeggiare con il suo cane nel bosco, scorse tra la sterpaglia un orologio da polso, a una sessantina di metri da dove mi avevano trovato. L'orologio era molto particolare: sul quadrante era raffigurato un calciatore stilizzato e la lancetta dei minuti terminava a forma di pallone. I signori Savage lo riconobbero come quello che portava Peter. La signora Savage confermò che lo aveva il pomeriggio della sparizione. Il cinturino di plastica pareva essere stato strappato dalla cassa di metallo con forza, forse dopo essersi impigliato in un ramo mentre Peter correva. La Scientifica identificò un certo numero di impronte digitali parziali sul cinturino e sul quadrante: tutte compatibili con quelle trovate sugli oggetti personali di Peter Savage.
Nonostante gli innumerevoli appelli della polizia e una campagna mediatica d'alto profilo, non furono trovate altre tracce di Peter Savage e di Germaine Rowan.
Sono entrato in polizia perché volevo diventare detective della Omicidi. Il periodo di addestramento e quello in uniforme – il Templemore College, i complicati e infiniti esercizi fisici, in giro nei minuscoli centri abitati con addosso una giacca fosforescente degna di un cartone animato, per scoprire quale dei tre delinquenti locali, indistinguibili l'uno dall'altro, avesse rotto la finestra del casotto in giardino della signora McSweeney – mi parvero un lungo, imbarazzante nonsense alla Ionesco, una specie di prova del tedio che dovevo superare, per una qualche mal congegnata ragione burocratica, se volevo guadagnarmi il mio vero posto. Non penso mai a quegli anni e nemmeno li ricordo con chiarezza. Non avevo amici. Il distacco che dimostravo da tutto mi sembrava involontario e inevitabile, come l'effetto secondario di un sedativo. Gli altri poliziotti però lo interpretavano come una deliberata forma di alterigia, una studiata presa in giro delle loro solide origini e ambizioni rurali. Forse lo era. Di recente ho trovato un diario di quel periodo: i miei colleghi sono descritti come "un branco di bovari dementi e ritardati che respirano con la bocca e che arrancano in un'atmosfera mefitica fatta di cliché, così spessa che si può sentire puzzo di pancetta, di cavolo, di merda di vacche e di candele da altare". Anche nell'ipotesi che avessi avuto una gran brutta giornata, penso comunque che questo mostri una certa mancanza di rispetto per le differenze culturali.
Quando riuscii a entrare alla Omicidi, nel mio armadio pendevano già da quasi un anno i vestiti nuovi: completi dal taglio perfetto, di stoffe così fini da farli sembrare vivi al tocco, camicie a righe azzurre o verdi delicatissime, sciarpe di cachemire morbide come conigli. Adoro la regola implicita che ti suggerisce come devi vestirti. Era una delle cose che mi affascinarono fin dall'inizio e mi attirarono verso il mio lavoro; quello e il linguaggio privato, funzionale, ellittico: ciò che rimane nascosto, le tracce, la Scientifica. In una delle cittadine alla Stephen King dove mi spedirono dopo Templemore ci fu un omicidio, un caso di violenza di ordinaria amministrazione tra le mura domestiche che era andato oltre le intenzioni di chi aveva commesso il reato. Poiché la precedente fidanzata dell'assassino era morta in circostanze sospette, la Omicidi inviò un paio di detective. Per tutta la settimana in cui restarono lì, tenni d'occhio costantemente la macchinetta del caffè dalla mia scrivania, in modo da poterlo prendere insieme a loro. Ci mettevo un po' di tempo ad aggiungere un goccio di latte e intanto tendevo l'orecchio ai ritmi della loro conversazione, scarna e brutale: quando l'ufficio ci manderà i test sulla tossicità; quando il laboratorio avrà identificato le impronte dei denti. Ripresi a fumare per poterli seguire fuori nel parcheggio e farmi una sigaretta a pochi metri da loro, fingendo di fissare il cielo ma non perdendomi nemmeno una parola di quello che si dicevano. Loro mi rivolgevano sorrisi fuggevoli e di circostanza, a volte mi accendevano la sigaretta con uno Zippo un po' ossidato prima di "congedarmi" con un gesto appena accennato della spalla e tornare a chissà quali astute e multiformi strategie. Prima fai venire mammina, poi lo lasci un'ora o due a casa a preoccuparsi di quello che lei sta dicendo, poi la ritiri in ballo. Prepara una stanza apposta, ma fallo entrare subito senza dargli tempo di studiarsela per bene.
Al contrario di quanto potreste supporre, non sono diventato detective con la speranza donchisciottesca di risolvere il mistero della mia infanzia. Lessi una sola volta il fascicolo, quel primo giorno, tardi, da solo, nella stanza della mia squadra, unica fonte di luce la lampada sulla scrivania: echi di nomi dimenticati svolazzavano nella mia testa come pipistrelli; testimoniavano, in un inchiostro ormai sbiadito, che Jamie aveva dato un calcio alla madre perché non voleva andare in collegio, che c'erano degli adolescenti "dall'aspetto pericoloso" che trascorrevano le serate a bighellonare al limitare del bosco, che una volta la madre di Peter era stata vista con un livido su uno zigomo. Non lo riaprii più. Erano queste cose arcane che scatenavano la mia bramosia, queste trame quasi invisibili come un testo in Braille. Erano come purosangue, quei due detective della Omicidi che passarono per Ballysperdutochissàdove; come trapezisti allenati al loro numero scintillante. Miravano alla posta più alta ed erano esperti nel loro gioco.
Sapevo che quello che facevano era crudele. Gli esseri umani sono bestiali e spietati. Osservare con occhi freddi e penetranti e poi con delicatezza sistemare questo o quel tassello, finché il fondamentale istinto di conservazione dell'uomo va in briciole, è crudeltà allo stato puro, nella sua forma più raffinata ed evoluta.
Sentimmo parlare di Cassie giorni prima che entrasse in squadra, forse persino prima che ricevesse l'offerta. Il passaparola dell'NBCI, l'Ufficio nazionale per le indagini criminali, è di un'efficienza che rasenta il ridicolo, stile vecchia zitella. La Omicidi è una sezione piccola e sottoposta a una pressione notevole: vi lavorano soltanto venti elementi in pianta stabile e se qualcosa si allontana dalla routine (quando qualcuno se ne va, quando arriva uno nuovo, quando c'è troppo lavoro, o ce n'è troppo poco) tende a sviluppare uno stato di eccitazione febbrile e claustrofobica, da isteria adolescenziale, piena di alleanze complicate e voci frenetiche. Di solito mi tengo fuori dal giro degli esaltati, ma il brusio su Cassie Maddox fu talmente forte che finii per sentirlo anch'io.