Noi diventammo amici grazie al suo scooter, una Vespa color crema del 1981 in condizioni penose che, nonostante il prestigio del marchio, mi ricordava un bastardino con una goccia di border collie nel suo pedigree. Io la chiamo Golf Cart per infastidire Cassie. Lei chiama Veicolo di compensazione la mia vecchia e malandata Land Rover bianca, con tanto di commento compassionevole per le mie ex fidanzate, Ecomobile quando è in preda alla vena bolscevica. Il Golf Cart suddetto scelse una tremenda giornata di pioggia di settembre, sferzata dal vento, per decidere di non volerne più sapere di partire, proprio fuori dall'ufficio. Io stavo uscendo dal parcheggio e vidi questa ragazzetta fradicia, con una giacca impermeabile rossa che sembrava proprio Kenny, quello di South Park. Se ne stava ferma di fianco alla Vespa altrettanto fradicia e sbraitava dietro un autobus che l'aveva lavata da capo a piedi. Accostai e abbassai il finestrino per chiederle: «Bisogno di una mano?».
Lei mi squadrò e rispose gridando: «Cosa te lo fa pensare?». Poi, prendendomi totalmente alla sprovvista, scoppiò a ridere.
Per circa cinque minuti, mentre cercavo di far ripartire la Vespa, mi innamorai di lei. La giacca impermeabile, di varie misure troppo grande, la faceva sembrare una bimba di otto anni, con tanto di stivali da pioggia con le coccinelle sopra e due enormi occhi nocciola, ciglia bagnate e il musetto di un gattino che spuntavano dal cappuccio rosso. Avrei voluto asciugarla dolcemente con un bel telo di morbida spugna, davanti a un camino acceso. Ma poi disse: «Senti, lascia stare, bisogna saperselo lavorare, 'sto coso» e io, inarcando un sopracciglio, ripetei: «'Sto coso? Contegno, ragazza!».
Me ne pentii subito. Non sono mai stato un granché con le battute e, non si sa mai, poteva essere una femminista sfegatata che mi avrebbe tenuto una lezione sotto la pioggia su Amelia Earhart. Invece mi rivolse un'occhiata di traverso, poi batté le mani bagnate e disse con voce bassa e suadente, alla Marilyn: «Ohhh, ho sempre sognato un cavaliere con l'armatura scintillante che venisse a salvarmi, povera piccola! Solo che nei miei sogni era anche bello».
Quello che stavo vedendo si trasformò in un istante, come attraverso un caleidoscopio sbattuto di qua e di là. Smisi di innamorarmi di lei e da quel momento cominciò a piacermi immensamente. Guardai la sua giacca impermeabile e dissi: «Oh, mio Dio, stanno per ammazzare Kenny». Poi caricai il Golf Cart sul retro della Land Rover e la portai a casa.
Aveva un "mini", l'espressione che i padroni di casa usano per indicare un monolocale con posto per ospitare un amico per la notte, all'ultimo piano di una casa georgiana semidiroccata a Sandymount. La strada era tranquilla, l'ampia finestra a ghigliottina dava sui tetti e verso la spiaggia. C'erano una libreria di legno carica di vecchi tascabili, un malconcio divano vittoriano rivestito con una stoffa di una tonalità turchese acceso, un grande futon con un piumino patchwork. Nessun ornamento o poster, una manciata di conchiglie, sassi e castagne sul davanzale della finestra.
Non ricordo nulla di specifico di quella serata e neppure lei, a quanto dice, ricorda qualcosa di speciale. Non ho dimenticato alcune delle cose di cui parlammo, ho qualche immagine chiarissima in mente, ma di quanto effettivamente ci dicemmo niente di niente. La cosa mi colpisce ed è strana, e a seconda dell'umore le attribuisco un che di magico. Collego la serata a quegli stati di alienazione di cui nei secoli sono stati accusati fate, streghe ed extraterrestri, e dai quali nessuno ritorna immutato. Ma quelle sacche perdute e liminali di tempo sono generalmente solitarie, e l'idea di condividerne una mi fa pensare a gemelli, a mani che brancolano in uno spazio dove c'è assenza di gravità e di parole.
So di essere rimasto per cena, una cena quasi da studenti, pasta e salsa direttamente dal barattolo, whisky caldo in tazze di porcellana. Mi ricordo che Cassie aprì un enorme armadio che occupava gran parte di una parete per tirarne fuori una salvietta così che potessi asciugarmi i capelli. Qualcuno, forse lei, aveva inserito dei ripiani nell'armadio. Erano posizionati ad altezze inarrivabili, stipati degli oggetti più disparati: non riuscii a vedere bene, ma c'erano casseruole dallo smalto sbreccato, blocchi per appunti dalla copertina marmorizzata, morbidi maglioni dai colori sgargianti, mucchi scomposti di carta scribacchiata. Era qualcosa di simile allo sfondo di quelle illustrazioni con dettagli impossibili e infinitesimali delle casette delle fiabe.
Mi ricordo di aver chiesto alla fine: «Allora, come ci sei finita nella squadra?». Avevamo parlato di come si stesse ambientando e pensai di averla buttata lì con sufficiente noncuranza, ma lei mi rivolse un sorrisetto birichino, come se stessimo giocando a dama e mi avesse beccato mentre cercavo di distrarla da una mossa maldestra.
«Per essere una ragazza, intendi?»
«A dire il vero, intendevo per essere così giovane» aggiustai il tiro, anche se naturalmente stavo pensando a entrambi gli aspetti.
«Ieri Costello mi ha chiamata "figliolo"» aggiunse Cassie. «"Buon lavoro, figliolo." Poi si è agitato e ha cominciato a balbettare. Penso avesse paura che lo denunciassi.»
«Forse era un complimento, a modo suo» dissi.
«E io l'ho presa così, infatti. In realtà è proprio tenero.» Si infilò una sigaretta in bocca e protese una mano. Le lanciai il mio accendino.
«Qualcuno mi ha detto che lavoravi sotto copertura come prostituta e ti sei imbattuta in uno dei capoccia» buttai lì, ma Cassie si limitò a rilanciarmi l'accendino e a rivolgermi un ampio sorriso.
«Quigley, giusto? Mi ha detto che tu invece eri una talpa dei servizi segreti di Sua Maestà.»
«Cosa?» Mi sentivo offeso e caddi dritto dritto nella mia stessa trappola. «Quigley è un idiota.»
«Ma dai!» fece lei e cominciò a ridere. Un istante dopo, ridevo anch'io. La faccenda della talpa mi infastidiva. Se mai qualcuno ci avesse creduto, non mi avrebbero più rivolto la parola. Essere preso per un inglese è una cosa che mi fa imbestialire all'ennesima potenza, ma in un certo qual senso mi piaceva l'idea di immaginarmi come un James Bond.
«Sono di Dublino» specificai. «L'accento l'ho preso in collegio, in Inghilterra. E quel bovaro lobotomizzato lo sa benissimo.» Era vero: nel corso delle prime settimane nella squadra mi aveva letteralmente tormentato su cosa ci facesse uno sbarbato inglese nella polizia irlandese, come un bambino che riesce a passare ore e ore a punzecchiarti un braccio e a ripetere ciclicamente "Perché? Perché? Perché?", tant'è che alla fine avevo infranto la mia regola sulla privacy e gli avevo spiegato il motivo dell'accento. Forse avrei dovuto essere più discreto.
«Com'è lavorare con lui?» chiese Cassie.
«Diciamo che piano piano mi farà diventare matto» risposi.
Qualcosa, e non so cosa, si fece strada nella mente di Cassie. Lei stragiura che a quel punto stavamo bevendo caffè e sostiene che sono solo io a credere che fosse whisky caldo perché quell'inverno ne bevemmo spessissimo, ma io lo so per certo, ricordo le punte dei chiodi di garofano sulla lingua, il vapore inebriante. Comunque, qualcosa la spinse ad appoggiarsi di fianco, passarsi la tazza da una mano all'altra, e a tirarsi su la maglia fino ad appena sotto il seno. Ne rimasi così sconcertato che ci misi un po' a capire cosa mi stava mostrando: una lunga cicatrice, ancora rossa, spessa e con i segni dei punti di sutura che sembravano zampette di ragno. Formava una curva attorno a una costola. «Mi hanno accoltellata» spiegò.