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Non ero più stato a Knocknaree da quell'estate. Ero andato anch'io in collegio alcune settimane dopo la data prevista per la partenza di Jamie. Il mio però era nel Wiltshire, in Inghilterra, quanto di più lontano i miei genitori potessero permettersi, e quando tornai a casa per Natale stavamo a Leixlip, dall'altra parte di Dublino. Arrivati alla superstrada, Cassie dovette tirare fuori la cartina per trovare l'uscita giusta e per seguire le indicazioni lungo stradine secondarie piene di buche e con erba e cespugli ai lati che graffiavano i finestrini.

Ovviamente, ho sempre sperato di poter ricordare cosa era successo in quel bosco. I pochi che sanno della faccenda di Knocknaree suggeriscono immancabilmente, prima o poi, di provare con la regressione ipnotica, ma per qualche motivo trovo l'idea di cattivo gusto. Sono profondamente sospettoso nei confronti della regressione ipnotica, del reiki, dell'aromaterapia e di qualsiasi cosa abbia anche un minimo aggancio con la New Age, e non per le pratiche in sé, che per quanto posso vedere da una distanza di sicurezza potrebbero anche essere utili, ma per le persone che girano in quegli ambienti, che sembrano sempre quelle del tipo che ti inchiodano in un angolo alle feste e ti spiegano come hanno scoperto di essere dei sopravvissuti e che per questo meritano di essere felici. Temo che potrei uscire dall'ipnosi con quella patina zuccherosa di illuminazione compiaciuta di un diciassettenne che ha appena scoperto Kerouac e comincia a fare proseliti nei pub.

Il sito di Knocknaree era un vasto campo sul leggero pendio di una collina. Era stato spogliato completamente fino alla nuda terra, messo sottosopra e picchettato da indecifrabili quanto intenzionali scarabocchi archeologici (trincee, formicai giganti, baracche in lamiera, frammenti sparsi di mura grezze, labirinti) che lo rendevano surreale come un paesaggio postnucleare. Da un lato era delimitato da una folta schiera di alberi, lungo l'altro correva un muro, sovrastato da ordinati timpani, che si estendeva dagli alberi alla strada. Verso la cima del pendio, nei pressi del muro, alcuni tecnici erano ammassati intorno a qualcosa che era delimitato dal nastro delle scene del crimine, azzurro e bianco. Probabilmente li conoscevo tutti, ma il contesto li trasformava, con le loro tute bianche, le mani inguantate e i loro sofisticati strumenti senza nome, in qualcosa di sinistro e magari collegato alla CIA. I pochi elementi identificabili avevano un aspetto solido e rassicurante da libro illustrato: un basso cottage dipinto di bianco proprio in fondo alla strada, un cane da pastore bianco e nero disteso davanti, con le zampe che gli si contraevano di tanto in tanto; una torre di pietra coperta di edera che s'increspava come acqua nella brezza. Un tremolio di luce sovrastava la fetta scura di fiume che attraversava un angolo del campo.

scarpe da ginnastica affondate nel terreno dell'argine, ombre a forma di foglia su una maglietta rossa, canne da pesca di rami e cordicelle, uno scappellotto ai più piccini: Zitti! O spaventerete i pesci!

Quel campo si trovava nel luogo in cui venti anni prima c'era il bosco. La striscia di alberi era quello che ne era rimasto. Ai tempi vivevo in una delle case dietro il muro.

Non me l'ero aspettato. Non guardo il telegiornale irlandese, si trasforma sempre in una macchia indistinta da mal di testa di politici tutti uguali, con gli occhi da sociopatici, che blaterano producendo un rumore bianco senza significato, come il borbottio confuso che ottieni quando ascolti un 33 giri a velocità superiore. Mi limito alle notizie dall'estero, dove la distanza semplifica le cose abbastanza da dare l'illusione che ci sia una differenza tra i vari attori. Sapevo, per una sorta di vaga osmosi, che c'era un sito archeologico da qualche parte intorno a Knocknaree e che c'era una controversia che lo riguardava: alternativi con capelli rasta che manifestavano con cartelli contro degli operatori immobiliari. Ma i dettagli non li avevo colti, così come l'esatto luogo. Proprio non me l'ero aspettato.

Parcheggiai in una piazzola dall'altra parte della strada rispetto al gruppo di baracche in lamiera, tra il furgone della Scientifica e una grossa Mercedes nera. Era quella di Cooper, il medico legale. Scendemmo dall'auto e mi fermai a controllare la pistola: pulita, carica, sicura inserita. Io indosso la fondina da spalla, qualsiasi altra posizione più in vista mi dà un senso di goffaggine, l'equivalente legale dell'esibizionismo. Cassie dice: «Vaffanculo la goffaggine, quando sei alta un metro e sessantotto, sei giovane e donna, mostrare un po' di autorità non fa male», e infatti la porta alla cintura. Spesso la differenza funziona a nostro vantaggio: la gente non sa di chi preoccuparsi maggiormente, se della ragazzetta con la pistola o del ragazzone che apparentemente non ce l'ha, e l'indecisione disorienta il malcapitato.

Cassie si appoggiò all'auto e rovistò nella cartella in cerca delle sigarette. «Vuoi?»

«No, grazie» risposi. Mi sistemai l'imbracatura, tirai le cinghie, mi assicurai che non fossero storte. Mi sentivo le dita spesse e impedite, come staccate dal corpo. Non volevo che Cassie mi facesse notare che, chiunque fosse questa ragazza e indipendentemente da quando fosse stata uccisa, era assai improbabile che l'omicida se ne stesse rintanato dietro una delle baracche e che ci fosse bisogno di tenerlo sotto tiro. Rovesciò leggermente la testa all'indietro e soffiò il fumo verso i rami sopra di noi. Era una tipica giornata estiva irlandese, incerta in modo irritante, tutta sole e nuvole che si avvicendavano in cielo, per non parlare della brezza che ti piega in due, pronta in qualsiasi momento a portarti una pioggia scrosciante o un sole rovente, o entrambi.

«Avanti» dissi. «Entriamo nel personaggio.» Cassie spense la sigaretta contro la suola della scarpa, reinfilò il mozzicone nel pacchetto e ci avviammo lungo la strada.

Un tipo di mezza età con un maglione che perdeva i pezzi indugiava nei pressi delle baracche con un'aria sperduta. Quando ci vide si rianimò.

«Signori detective» si rivolse a noi. «Dovete essere i detective, vero? Dottor Hunt… voglio dire, Ian Hunt. Sono il direttore del sito. Da dove vorreste… ecco insomma… l'ufficio o il corpo o…? Non so bene, capite. Il protocollo e cose del genere.» Era una di quelle persone che appena le vedi cominci immediatamente, e senza volerlo, a trasformare in un cartone animato: un paio d'ali, un becco e… ta-ta, il Professor Picchio Verde.

«Detective Maddox, e questo è il detective Ryan» fece Cassie incaricandosi delle presentazioni. «Se è possibile, dottor Hunt, magari uno dei suoi colleghi potrebbe fornire una descrizione rapida del sito al detective Ryan mentre lei mostra a me i resti?»

"Stronzetta" pensai. Mi sentivo al tempo stesso teso come una corda di violino e intontito, come se fossi in preda ai postumi di una sbornia epocale e avessi cercato di schiarirmi la testa con troppa caffeina. La luce che rimbalzava da un frammento di mica all'altro nel terreno pieno di solchi era troppo brillante, ingannevole, guizzante. Non ero dell'umore giusto per essere protetto. Ma una delle regole non dette in vigore tra me e Cassie è che, almeno in pubblico, non ci contraddiciamo. E a volte uno di noi se ne approfitta.

«Ehm… sì» acconsentì Hunt, sbattendo le palpebre dietro le lenti. Dava l'impressione di essere sempre lì lì per far cadere qualcosa, appunti scritti su blocchi di carta gialla a righe, fazzoletti sgualciti, pasticche per la gola ancora mezzo incartate, anche se in realtà non aveva nulla in mano. «Sì, naturalmente. Sono tutti… be', di solito sono Mark e Damien a fare le visite ma, vedete, Damien è… Mark!» chiamò, rivolto verso la porta aperta di una baracca di lamiera e intravidi un gruppo di persone accalcate attorno a un tavolo spoglio: giacche militari, panini e tazze fumanti, terra sul pavimento. Uno dei ragazzi lasciò andare alcune carte e cominciò a districarsi dalle sedie di plastica.