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— Canale D a Osborn. Davvero grazioso, no? — trasmise Jeffers da sotto.

—  Be'…

Colore orrendo pensò. Ed è il rivestimento interno del corridoio. Dovremo guardarcelo per settant'anni. I mech scesero più in basso, inclinando il cilindro verso il Pozzo 3, seguendo le sue istruzioni. Il nucleo di Halley compiva una rotazione completa ogni cinquantadue ore, abbastanza velocemente per rendere necessarie delle regolazioni mentre si avvicinavano. A quella distanza, 8,3 chilometri diceva il suo quadro di controllo, c'era anche una sottile nebbia dovuta alla chioma cometaria in dissolvimento che offuscava le immagini e rendeva difficoltoso l'impiego del suo programma di allineamento automatico.

In caso di cattivo funzionamento, aveva un sistema di appoggio a bordo della Edmund. Ottimo, in teoria, ma nel tempo che avrebbe impiegato per avere qualcuno in linea, i mech potevano benissimo, in perfetta obbedienza, cercare di ficcare il cilindro dentro una collina di ghiaccio. Malgrado la fervida fede di Virginia, i computer non potevano fare più di tanto. Da lì in avanti bisognava navigare a vista.

— Lo porto dentro piano — trasmise.

— Pare si sia orientato verticalmente giusto di un pelo. Ma due clic troppo in alto lungo l'asse y locale — rispose Jeffers.

Carl abbassò lo sguardo, ricalibrò, vide che Jeffers aveva ragione. — Maledizione.

— Sei okay?

— Sì. Continua a tenere accesi quei fari.

I quattro allineatori laser inquadrarono chiaramente il Pozzo 3, e Carl fece assumere ai mech la configurazione usando quei segnalatori luminosi. Una lieve variazione di velocità, una torsione compensatrice. Il quadro di comando approvò lo spostamento. Bene. Ma adesso il ghiaccio frastagliato si stava avvicinando in fretta, e…

La gravità. Si era dimenticato della dannata forza di gravità. Il nucleo di Halley esercitava un'attrazione che era soltanto un decimillesimo di quella della Terra… ma durante la sua mezz'ora di discesa dal trasporto a vela solare la velocità era aumentata… di poco, ma costantemente… Digitò una correzione, osservando l'equazione numerica scorrere via, increspandosi, sul suo quadro di comando.

Le luci lampeggiarono rosse. — Sto frenando — trasmise, e accese i retrorazzi dei mech.

Maledizione alla gravità, comunque. Carl era stato su Encke, aveva lavorato intorno al nucleo roccioso della cometa per settimane, un sacco di brontolamenti e di sudate nei momenti cruciali. Comunque, era sostanzialmente facile, se si faceva attenzione a far coincidere i propri vettori, se non si spingeva nessun altro punto salvo il centro della massa, e si lavorava con calma sempre con la testa sulle spalle.

Ma Encke era un nanerottolo… una antica cometa sfrondata, abbrustolita dal sole a causa del suo lungo soggiornare nel sistema solare interno. Halley aveva molta più massa, per la maggior parte di ghiaccio. Sulla sua superficie non ci si accorgeva mai della leggera attrazione, ma avvicinandosi così dall'esterno, prendendo il tempo necessario a mirare con cura, gli effetti di quel decimillesimo di gravità potevano sommarsi.

I getti azzurri dei mech si aprirono a ventaglio contro il fondale di ghiaccio, rallentando il carico. D'un tratto Carl vide che non era sufficiente. Quel poderoso cilindro lungo cento metri si stava avvicinando troppo in fretta.

Ordinò al mech che si trovava più in basso a babordo di girarsi e attivare i getti alla massima potenza. L'unità ruotò e accese la propria riserva.

— Cosa diavolo fai… — cominciò Jeffers.

— Sgombra il pozzo!

— Cosa…

— Sgombralo!

La procedura standard consisteva nel far adagiare il carico a una cinquantina di metri di distanza, per poi spingerlo dentro. Il suo pannello gli diceva che una manovra del genere era impossibile. L'istinto gli suggeriva di tentare qualcos'altro.

Azionò i propri getti, scattando in avanti e quasi raggiungendo il cilindro. Un tocco da parte del mech di tribordo situato più in basso, due rapide torsioni, una scossa laterale per allinearlo…

Una freccia che cadeva dall'alto, puntata contro un cerchio nero raggrinzito.

Il cilindro arancione colpì il labbro del Pozzo 3, rallentò, frantumò un bordo di ghiaccio, e proseguì dentro, seminando fiocchi dello spazio.

Come un pesce in un barile! gioì, mentre il cilindro scompariva dentro il foro.

Jeffers urlò: — Ehi! Cosa ti viene in mente?

— Mi è scappato.

— Col cavolo! Ti stai soltanto esibendo.

Carl fece pulsare i propri getti e atterrò agilmente sui piedi. — Vorrei proprio! Niente da fare, l'ho corretto all'ultimo momento. Ho pensato che fosse meglio tentare di far centro piuttosto che bruciare del carburante per decelerare. Specialmente considerando che in ogni caso non avrei potuto fermarlo.

Jeffers scosse la testa esasperato. — Esibizionista — insistette. E andò a controllare che non fossero rimasti in giro brandelli del materiale.

Non ce n'era nessuno. Liscio e a prova di spuntoni, l'intreccio di filofibra poteva flettersi intorno agli orli aguzzi, il che lo rendeva eccellente per rivestire le gallerie serpeggianti all'interno del nucleo di Halley.

I quindici membri del Gruppo per l'Installazione dei Sistemi di Sopravvivenza avevano dieci giorni per traforare una frazione della regione del polo Nord, rivestire i pozzi e le gallerie con isolante ad alta pressione, e poi riempirli d'aria. Non sufficientemente lungo. E durante tutto quel tempo gli scienziati da poco risvegliati a bordo della Edmund avrebbero morso il freno.

Anche con 112 mech sarebbe stato un programma molto impegnativo. Non c'erano più di tante mani a guidarli. Al momento, l'intera spedizione disponeva soltanto di 67 membri «vivi». Quasi 300 aspettavano nelle capsule del sonno, le loro temperature corporee erano all'incirca di un grado al di sopra del punto di congelamento.

In alto, le lunghe e sottile chiatte spaziali aspettavano con il loro carico umano. Le loro immense vele solari, sottili come garze, adesso erano ammainate, non più necessarie per altri settant'anni. Accanto alla Edmund, simile ad una balena, le argentee Sekanina, Delsemme, e la Whipple, parevano pazienti barracuda.

Ancora nessuna notizia della Newburn, pensò Carl. Com'era possìbile che si fosse persa?

— Voi ragazzi state bene? — arrivò da qualche parte la voce leggera e tintinnante di Lani Nguyen.

Carl si guardò intorno e scoprì un puntolino che diventava rapidamente più grande a mano a mano che si avvicinava sfrecciando lungo il cavo polare. Aveva un braccio serrato sul cursore del cavo, mentre agitava l'altro, assomigliando straordinariamente a un uccello a volo radente che sbattesse un'ala soltanto.

— Sì, bene — trasmise Jeffers.

— Mi era parso di sentire che c'era un guaio…

La donna si staccò dal cavo balzando verso di loro, girandosi con destrezza per spostare il proprio baricentro ed evitare di mettersi a ruotare su se stessa a causa della spinta dei propri getti. È in gamba pensò Carl. Maledettamente in gamba. La delicatezza eterea di Lani mascherava un fisico saldo e muscoloso. Ma perché venire a controllare di persona un malfunzionamento di poco conto?

— Niente di speciale — rispose.

— Be', io avevo già finito, stavo giusto per tornare dentro. — Atterrò con l'agilità di un gatto a dieci metri di distanza, sollevando soltanto una nuvoletta di polvere. — Volete fare una sosta?

— Non possiamo — replicò Jeffers. — Dobbiamo controllare il tubo, assicurarci che si fissi bene.

Lani guardò Carl. — È un lavoro di routine, non dovrebbero volerci due persone.