Carl disse: — Se non stiamo attenti alla sicurezza, Cruz ci farà una testa così.
La donna lo studiò attraverso il suo casco sporco di polvere. — Sei sicuro? Non è già passata l'ora in cui dovevi smontare?
— Ehi, non ho intenzione di lavorare solo, ragazzina — dichiarò Jeffers, bonario ma fermo.
Lei scrollò le spalle. — D'accordo. Volevo soltanto un po' di riposo e relax. Sono in anticipo di una frazione sul programma.
— Ci vediamo stasera, allora. — Jeffers le lanciò un'occhiata di apprezzamento, ma lei parve non accorgersene.
— D'accordo — lei disse, rivolta a Carl. — Stasera. Decollò con altrettanta grazia e puntò verso il pozzo principale.
— Non me ne dispiacerebbe affatto — commentò Jeffers con aria sognante, su un canale chiuso. Carl l'ignorò.
— Presto dovremo pensare ad accoppiarci.
— Fra un mese sarai un ghiacciolo.
— Bisogna pensarci in anticipo.
— Pensi di riuscire a convincerla a fare un turno con te? — gli chiese Carl.
— Potrei. Poi sarò solo e gelato.
Carl scoppiò a ridere. — La tua idea dei preliminari sono sei birre e una partita a biliardo. Lei non è il tuo tipo.
— La necessità può creare degli strani compagni di letto. Non è stato Shakespeare a dirlo?
— Limitati al lavoro mugugnoso: è la tua forza. — Diede a Jeffers un'amichevole spinta verso l'ingresso del pozzo.
— Non puoi biasimare qualcuno soltanto perché vuol provarci.
— Su, vieni. Sei con la lingua penzoloni.
Si fecero precedere dai loro mech, in volo, giù attraverso l'asse cavo del cilindro arancione, liberando i ganci di arresto a mano a mano che passavano. Il tubo di filofibra s'irrigidiva, articolandosi in singole guaine lungo l'asse originario. Ogni due minuti, estrudeva da se stesso un nuovo segmento di cento metri, automaticamente pressurizzato e sigillato alle estremità, per poi cominciare a spingerne fuori un altro, ogni tratto successivo più stretto del precedente. Per Carl, tutto il complesso assomigliava a un anellide che si rigenerasse in continuazione, scavando una galleria dentro una mela.
Le gallerie laterali richiedevano maggiori cure. I mech tagliavano dei fori per le intersezioni, le saldavano garantendo una chiusura ermetica, e vi installavano gli estrusori dei tubi più piccoli. Carl e Jeffers dovevano manovrarli fino al punto stabilito, accoppiandoli e disaccoppiandoli, controllando giunture e saldature ermetiche, assicurandosi che niente s'impigliasse negli affioramenti di roccia o negli spuntoni di ghiaccio. Nelle gallerie, a volte si staccavano frammenti di agglomerato di ghiaccio, talvolta i mech erano maldestri, e fluttuavano liberi negli spazi bui, generando aloni multicolori intorno alle torce elettriche impiegate dagli uomini. Era un lavoro metodico, meticoloso, faticoso, perfino in condizioni di gravità quasi nulla.
L'intervallo per il pasto lo fecero in un segmento di galleria recentemente riempito d'aria. Aprirono il casco e si ormeggiarono a una parete, godendosi quella libertà, anche se l'aria fredda e pungente pareva colpire le loro narici come tante stilettate.
— Credi che ti abituerai mai — chiese Jeffers, masticando metodicamente una sbarretta di razioni autoriscaldate, — a vivere qua dentro?
Carl scrollò le spalle. — Ma sicuro. La ruota della ginnastica e la stimolazione elettrica si prenderanno cura della bassa gravità, così dicono i medici.
— Fidarsi di lor per ottant'anni? — Il volto magro di Jeffers pareva fatto apposta per esibire un'espressione scettica. La sua bocca si inclinava verso un mento appuntito, gli occhi si stringevano a punto interrogativo. — Comunque intendevo parlare del ghiaccio tutt'intorno. Senti come fa freddo? E questo con tutto l'isolante e il riscaldamento delle nostre tute che funziona a tutto spiano.
— Sarà un inverno mooolto lungo — Jeffers sogghignò. Ben presto avrebbe galleggiato beatamente nella sua capsula ad animazione sospesa, ed era chiaro che accarezzava quel pensiero. Jeffers era rimasto sveglio durante il volo verso l'esterno. Era stato noioso, e adesso il lavoro era duro e pericoloso. Era pronto perché altri prendessero il suo posto. Il primo turno.
Anche così, Carl non riusciva a capire l'atteggiamento di quell'uomo.
— Ci sono dei rischi in quelle capsule, sai. Malfunzionamenti del sistema, o anche…
— Lo so, lo so. La mia biochimica potrebbe incasinarsi in qualche maniera che gli esperti non hanno previsto. Oppure voi di guardia potreste toccare l'interruttore sbagliato, togliermi la corrente, e verrebbero a mancarmi le salvaguardie. Oppure un asteroide potrebbe colpirci tutti. — sogghignò un'altra volta. — Comunque, fra un paio di decenni sarà un altro viaggetto a senso unico.
Carl corrugò la fronte. — E allora?
— Preferisco dormire durante la parte monotona, accumulando la paga sulla Terra. — Il volto sottile di Jeffers si torse in un sorriso sardonico. — La colonizzazione delle comete nel sistema esterno… quello sì che sarà divertente. Ma posso saltare la politica del baciaculo.
— Cosa vuoi dire?
— Suvvia, anche tu sei percell. Sai com'è stata impostata tutta questa spedizione.
— Uh… come?
— Gli ortho! Sono loro che dirigono tutto. — Jeffers spuntò i nomi con le dita. — Cruz, poi Oakes, Matsudo, d'Amaria, Ould-Harrad, Quiverian. Ogni caposezione è un ortho.
— E allora?
— Loro pensano che noi siamo dei mostri… degli scherzi di natura.
— Oh, suvvia.
— Ma è così! Pensa a come gli ortho trattano i nostri sulla Terra. Credi che questi siano diversi?
— Non sono come quella masnada che ha incendiato il centro del Cile la settimana scorsa, se è questo che vuoi dire. Certo, ho letto di quella faccenda, e di quello che è successo negli altri posti. È una delle ragioni per cui lavoro nello spazio. Proprio come te.
— Lo spazio non è diverso.
— Certo che lo è. Questi ortho, questa gente, sanno che in realtà sono uguali a noi.
Jeffers ribatté in tono trionfante: — Ma non lo sono.
Carl sorrise senza umorismo. — Adesso, chi è che ha pregiudizi?
— Diavolo, sai benissimo che non siamo affatto come loro. — Jeffers si sporse in avanti, parlando con fervore. — Il nostro corpo è migliore, questo sicuro. E siamo più intelligenti. I test lo dimostrano.
— Col cavolo.
— Non puoi mettere in discussione le statistiche!
Carl grugnì irritato. — Ascolta, eravamo dei ragazzi-meraviglia là sulla Terra quando stavamo crescendo, prima che la gente cominciasse a mettersi contro noi tutti. Tutti i percell lo erano. Non ricordi le borse di studio? Tutte le attenzioni speciali?
— Ce le siamo meritate. Eravamo intelligenti.
Carl scosse la testa. — Ne siamo venuti fuori intelligenti grazie al trattamento da VIP che ci hanno riservato.
— Nooo. Io sono sempre stato più veloce dell'ortho tipico, anche se non mi preoccupo di parlare come si deve.
— E lo sei. Ma non sei meglio di gente come il capitano Cruz o il dottor Oakes. — Carl si alzò in piedi troppo in fretta e la sua presa velcro si strappò dal filofibra. Schizzò attraverso la galleria e sbatté la testa contro il soffitto.
— Dannazione!
Jeffers ridacchiò ma non disse niente. Carl si sfregò la fronte mentre ritornava veleggiando, ma rifiutò di lasciar trasparire la sua irritazione ulteriormente. Jeffers era come troppi percell, invischiato nella sua mania di persecuzione, cogliendo ogni immaginario affronto come se fosse una piaga purulenta. Discutere con loro serviva soltanto a incoraggiarli.
— Apri gli occhi — insistette il suo amico. — Chi hanno messo a fare dei lavori pericolosi come il nostro? I percell!