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Carl programmò il trasporto per la spinta massima, con le dita tozze che digitavano i comandi con deliberata lentezza. Lani aveva insistito per venire anche lei, e lui non aveva perso tempo a discutere. Si levarono in volo con Lani nel baccello laterale.

Virginia aveva lasciato il loro centro comune di massa con la stessa velocità di Carl, a meno di quattro chilometri al minuto, ma nella direzione opposta. La loro separazione si collocava a più di tre ore nel passato. Ciò significava che lui doveva recuperare quasi mille chilometri alla spinta massima, poi esplorare lo spazio alla ricerca d'un debole segnale per identificare il vettore…

La velocità. La velocità era tutto quello che contava, adesso.

Alcune ore più tardi, Carl ridiscese con il mech eseguendo un atterraggio nient'affatto morbido presso l'ingresso vetrificato del Pozzo 3. Era a pezzi per la fatica, ma aveva Virginia. Il mondo gli s'inclinò intorno, confusamente, quando smontò dal mech, incerto sulle gambe a causa delle continue variazioni delle accelerazioni che aveva subìto nelle ultime ore.

Ci siamo quasi. Adesso portala dentro…

Scivolò goffamente sul ghiaccio lasciandola cadere. Lani lo aiutò. Tutto era nebbioso e si muoveva al rallentatore.

Soltanto quando delle mani guantate afferrarono Virginia, tirando via da lui la forma flaccida in tuta spaziale, Carl si accorse della presenza degli altri. Indossavano tute nere senza nessuna cotta, con stretti caschi che mostravano soltanto gli occhi attraverso strette fessure. Passò da un canale all'altro del comunicatore, ma non risposero.

Erano silenziosi, avevano un qualcosa di soprannaturale. Ed erano identici. Quello che trasportava Virginia si girò di scatto, e si diresse in fretta verso l'ingresso del pozzo, adesso sgomberato dal ghiaccio. Poi Carl lo seguì scivolando e incespicando.

Giù per il pozzo. Le pareti gli slittavano accanto come rovesci di pioggia, durante la discesa, mentre lui guardava, impassibile, intorpidito, con un'indolenza strisciante che gli si insinuava nelle braccia e nelle gambe. Era ben oltre il punto in cui gl'importava ancora qualcosa di se stesso, e si concentrava soltanto sul corpo trasportato dalla figura in tuta nera davanti a lui. Ogni cosa si muoveva con velocità e silenzio spettrali.

Varcarono il portello d'una camera di equilibrio, Carl si appoggiò stordito contro la paratia quando la pressione gli schioccò negli orecchi e il mondo dei suoni tornò a circondarlo come una marea, con il fruscio e il mormorio della conversazione che mulinava ancora una volta intorno a lui, dopo molte ore d'imbalsamato isolamento. Attraversò barcollando il portale, respingendo le mani che cercavano di guidarlo.

Dozzine di feriti gementi. Medici con i guanti grondanti sangue.

Virginia. Devo vederla… ha bisogno… devo…

L'uomo che la trasportava la mise giù delicatamente su un lettino medico. Un'équipe la stava aspettando. La collegarono con delle pompe a ossigeno, cavi per la diagnosi, la spogliarono della tuta, il tutto sotto la pallida luce smaltata che mostrava il suo volto esangue nei più terrificanti particolari, segnata e solcata come un paesaggio collassato.

Un torrente di voci, parole liquide che scorrevano via accanto a lui in vortici che non lasciavano traccia…

Carl avanzò con passo strascicato, ignorando le mani che lo trattenevano. Devo essere con lei… devo…

L'uomo accanto a lui gli mise una mano sulla spalla per calmarlo. Carl si girò lentamente. Poi la figura in nero allentò il proprio casco lucido, cominciò a sollevarlo, dette in un ansito e, in una vecchia, familiare maniera, sternutì.

SAUL

Un altro sobbalzante sternuto risuonò prima che il casco color ebano venisse sollevato del tutto. Saul sbatté le palpebre per scacciar via delle macchie danzanti. Dovette azionare il suo bio-retroattore per arrestare un altro prurito che minacciava di farlo ricominciare. Adesso non era proprio il momento perché quel dannato sistema di allergia-simbiotica s'inalberasse. Aveva avuto abbastanza guai da quando c'era stato il crollo della galleria, gli pareva che fossero passati giorni, e in questo momento ogni singolo istante contava.

Carl Osborn lo fissava, sbattendo incessantemente le palpebre, il suo casco da spaziale, sudicio, ammaccato, di modello superato, gli penzolava da una mano. — Ma… ma… eri morto!

Saul scrollò le spalle. — Lo ero, in un certo senso. Ma come una vecchia erbaccia, continuo a rispuntare. — Carl meritava una spiegazione, ma questo non era il momento di dargliene una. Saul si chinò sopra la forma pallida, cerulea, di Virginia, e lesse il cerotto diagnostico attaccato alla sua gola, che aveva assunto una colorazione azzurra. Un infusore di ossigeno sibilava, lavorando direttamente sopra la sua carotide.

Non andiamo bene si rese conto, nauseato. Oh, Virginia…

Malgrado il naso intasato, colse chiaramente l'odore di bruciato. Per un istante le fiamme lambirono ancora una volta i cedri vecchi di un secolo sul monte Sion.

No! Non stavolta.

Gli bastò un istante per cogliere l'unica speranza. Siamo arrivati a questo, amor mio. Devo fare esperimenti, perfino con te.

Una cosa era certa. Doveva sbarazzarsi di Carl Osborn, giacché quell'uomo avrebbe certamente interferito con ciò che lui doveva fare adesso.

— Non startene lì, Carl. Vai su, presto! Keoki e Jeffers hanno bisogno di te. Dì a Ould-Harrad che lo ritengo responsabile del mantenimento della parola data di non distruggere nessuna attrezzatura, soltanto le fondamenta dei lanciatori, come abbiamo concordato.

— Distruggere… Ould-Harrad… — Carl scosse la testa, ovviamente esausto e confuso. Per uscire da quel guazzabuglio si afferrò ad una priorità e vi si aggrappò ostinatamente. — No. Rimango con Virginia.

Disperato, Saul percepì l'inesorabile passare dei secondi. — Ishmael! Job! — chiamò. — Portate il comandante Osborn in superficie, adesso. C'è bisogno di lui lassù. Mettetelo al lavoro!

Carl si girò e piantò i piedi per terra, come se avesse tutte le intenzioni di lottare per rimanere. Ma ogni forza gli venne meno quando vide i due giovani dai corpi muscolosi che puntavano su di lui, identici e sorridenti, quel sorriso che conosceva fin troppo bene. — Non ci credo — bisbigliò Carl. — Sono… sono cloni… di te stesso! Ma come…

Il sibilo della porta della stanza tagliò fuori il resto delle parole di Carl. Saul si mise a correre lungo il corridoio trasportando Virginia fra le braccia, aderendo con le dita dei piedi al tappeto verde di halleyvirid, affrettandosi verso l'unico luogo possibile dove esisteva una vaga probabilità di salvare la sua vita.

Carl non avrebbe mai permesso questo pensò, sapendo che quell'uomo l'amava, a modo suo, tanto quanto lui stesso. C'è bisogno di lui, e quello che sto per tentare mi farebbe escludere dall'Associazione Medica Americana.

Sibilò il codice che apriva la porta del laboratorio di Virginia, e vi si tuffò dentro.

Mentre il programma diagnostico di JonVon sondava le frange del cervello di Virginia che stava lentamente morendo, Saul si spogliò della sua tenuta da superficie.

L'insieme del casco, zaino da cintura, e dermavernice era uno dei doni di Phobos che lui aveva tenuto per sé. Alcuni mesi prima si era servito di un pretesto per regolare la fabbrica automatica, così da produrne una dozzina di esemplari, un numero sufficiente del modello perfezionato per equipaggiarne i suoi dieci «ragazzi» e lui stesso.

Dopo il crollo della galleria, quando aveva trovato bloccata la strada che conduceva in superficie, era tornato e aveva radunato le sue repliche clonate. Tuttavia, prima della partenza era arrivato un messaggio da Ould-Harrad. L'ex spaziale si offriva di guidare Saul lungo le gallerie segrete conosciute soltanto dal suo clan degli strani, e di aiutarlo a colpire là dove Sergeov meno se l'aspettava. Per un prezzo, però.