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Una minuscola stanza, angusta, sotto milioni di tonnellate di ghiaccio. Macchine nerastre, ammaccate, giacevano allineate lungo una parete.

Un piccolo robot si gingillava con una spazzola di madreperla sulla superficie del banco.

Lontano, poteva sentire i colpi resi incerti dalla confusione della piccola Wendy. Le ci volle soltanto un piccolo sforzo per protendersi e calmare il piccolo mech, raddrizzando il suo programma. La spazzola venne riposta. Wendy ronzò grata, si girò e si allontanò.

Il corpo di una donna giaceva in una ragnatela, una versione pallida, logora, di quello sano e abbronzato che indossava adesso. Era questa la realtà? si chiese Virginia.

Un uomo nudo giaceva supino accanto al cadavere, un connettore neurale copriva parte del suo cuoio capelluto, un braccio circondava il viso. Si protese. Riuscì a percepire delle appendici del suo io. La mente che toccò era stordita, conscia soltanto a metà a causa delle violente scrollate subite all'interno del proprio cervello. Ma Virginia avvertì un'ondata di sollievo. L'io rimaneva. Lui si sarebbe risvegliato.

— Saul — lei bisbigliò.

Fu allora che l'altro uomo, ancora in piedi, ancora rivestito da una tuta spaziale ammaccata, con una cotta insudiciata, sollevò lo sguardo all'improvviso, sorpreso, verso l'olovasca principale. Le sue palpebre sbatterono, le pupille si dilatarono, le sopracciglia si drizzarono, e le labbra si mossero in silenzio, quasi con reverenza.

— Virginia, sei davvero tu?

Lei sorrise. Un haiku si impresse sulla sabbia luminosa accanto all'acqua:

Cos'è davvero reale?

Quando la notte inghiotte tutto il tempo?

E i momenti sono tutto quello che rubiamo?

Virginia parlò ad alta voce:

— O spirito spensierato, davvero, tu mai fosti libero e audace?

Un debole sorriso. Gli inizi di una constatazione. Gioia su quel volto brizzolato e stanco.

— Ciao, Carl — disse Virginia.

CARL

Osservò, senza comprendere, la cascata dei colori sugli schermi. Nella ceramica fredda e silenziosa era come se fosse l'ultimo sopravvissuto ad anni di follia, il testimone solitario della lotta finale d'una fragile vita organica contro il gelo avvolgente. Rabbrividì.

Saul giacque assolutamente immobile, i connettori neurali gli coronavano la testa simili ad un groviglio di cilindri d'acciaio, cavi serpeggianti, chiazze di monocristalli silicei che ricordavano i capelli della Medusa. E tutt'attorno a Carl continuava una strana lotta silenziosa, pallidamente riflessa dai cambiamenti sugli schermi.

L'immagine d'una immensa città color smeraldo si levò nel principale cubo olografico, con le sfaccettature che ammiccavano in profondità nei recessi degli sporgenti grattacieli. Gli edifici erano translucidi, ognuno un alveare di sfreccianti macchioline e ammiccanti superfici di mica, come se creature infinitesimali corressero attraverso i corridoi d'una metropoli.

Carl sapeva che quella era un'immagine nella mente di Virginia, una ragnatela di associazioni stratificatesi fin dall'infanzia, costruita verso l'alto come una città, sulla più semplice struttura dell'infanzia. Sotto un impassibile cielo grigio-mare, le luci della città sfavillavano, con le scintille che disegnavano i tracciati delle strade. Qui un edificio si oscurava all'improvviso, là un altro avvampava di una nuova vita. Carl non riusciva a seguire quei rapidi movimenti, ma percepiva un frenetico riarrangiamento, un ritmo febbrile da insetti. I grattacieli s'innalzavano, svettavano.

— Cosa… cos'è successo? — La voce tesa di Lani lo riportò alla realtà. Si girò. Gli occhi di lei si spalancarono. Tese le braccia verso di lui, serrandogli le mani.

— Saul… è andato dietro di lei. — Carl la strinse a sé, cercando di seguire con gli occhi il fluire da uno schermo all'altro. Un gigantesco transatlantico attraccò ai margini della città, degli edifici si fusero e fluirono dentro la nave. Il transatlantico affondò sempre di più nell'acqua. — Credo che Saul stia immagazzinando alcune delle sue matrici associative nel proprio cervello.

— È possibile?

— In teoria, forse. Virginia ha espanso il proprio sistema per decenni, con JonVon che inventava sempre nuove cose, non riuscivo neppure più a seguire il loro gergo.

— Come faremo a sapere… se lo stesso Saul è in pericolo?

Carl strinse le labbra riducendole ad una sottile linea bianca.

— Non lo sapremo.

Lani distolse lo sguardo dalle increspature sul complesso degli schermi, così simile a un alveare. — Così in fretta… così tanto in fretta…

Carl la strinse a sé. — E così tanti morti.

Aspettarono insieme. A un certo punto Lani si acciambellò sul pavimento e dormì. Carl continuò a camminare avanti e indietro fino a quando, all'improvviso, una serie di suoni, simili a uno sbecchettare, uscì dai sistemi acustici lì accanto. Un rapido, aspro picchiettio… poi il rumore di qualcosa che si spezzava, come il guscio di un nuovo. Una lunga pausa, poi una voce ben modulata parve uscire dal nulla e disse: — O spirito spensierato, davvero…

La voce finì per disperdersi in una serie di ticchettii e di mormoni. Carl sbatté le palpebre. Pensò, Pareva quasi…

— Ciao, Carl.

Si girò di scatto. Un ologramma s'increspò, dei contorni granulosi si coagularono in una faccia macchiata. Degli occhi si cristallizzarono, occhi neri che parevano sorpresi quanto lui.

— Dannazione! Sei… tu? — Sentì Lani muoversi, alzarsi in piedi e fermarsi accanto a lui con gli occhi spalancati, fissi su quell'immagine.

— Sono io tanto quanto lo sarò!

Lani guardò il corpo della donna che giaceva sulla ragnatela, poi riportò lo sguardo sull'ologramma. Stordita, si leccò le labbra e disse: — La tua voce è troppo acuta.

— Ci sto lavorando. — Il tono si stabilizzò su un registro di mezzo soprano. Il timbro e la voce vacillarono. — Un attimo, mi è sfuggito… Ecco, ti sembra giusto?

Era una voce piena, con un'arcana sensazione di presenza. Carl fu attraversato da un brivido. Le sue labbra articolarono il nome, senza suono.

— Proprio il giusto accento hawaiano — commentò Lani, con voce acuta e tesa.

L'immagine si mise ancora di più a fuoco. Le labbra si mossero in sintonia con essa. — Posso lavorare su… — E poi risuonò uno strillo acuto e irritante. Carl allungò una mano e spense l'interruttore dell'olo.

— Mio Dio, cosa sta succedendo? — chiese Lani. Ancora una volta guardò il corpo di Virginia. Il respiratore sibilava ancora, ma il cerotto diagnostico era diventato d'un purpureo scurissimo.

— È da qualche parte là dentro che sta cercando una via d'uscita.

Lani sfiorò alcuni schermi indicatori e respirò profondamente. — È impossibile arrivare a lei sul comunicatore o in qualunque altra maniera. Tutti gli accessi sono bloccati.

Carl fece un gesto mentre un banco d'indicatori color acquamarina dava in un guizzo per poi spegnersi. — Ecco che sono partiti i monitor dell'autocontrollo. Adesso, se dovesse guastarsi qualcosa, in un punto qualunque di Halley, noi neppure lo sapremmo.

Sul suo giaciglio, Saul produsse un sussulto improvviso, artigliando l'aria con le dita. Poi il suo corpo ridivenne flaccido. D'un tratto chiamò, con voce sottile e asciutta: — Wendy. Wendy.

— Dovremmo fare qualcosa — disse Lani.

— No, non possiamo. Sono soli, e nessuno può aiutarli.

— Potremmo perderli entrambi!

Lentamente, una parte di Carl riprese di nuovo vita. Un frammento che si scuoteva di dosso quell'invadente, traumatizzante torpore. Virginia era scomparsa per sempre. Non importava ciò che Saul faceva. Non importava ciò che rimaneva di JonVon… quella donna intelligente, calda, era sgusciata via.