— Non importa — dichiarò Carl. — Ne avremo in abbondanza da fare, qui dentro — aggiunse, schiaffeggiando affettuosamente il sedere di Lani.
Virginia sapeva esattamente quello che Carl aveva in mente. Era implicito in tutto il suo profilo psicologico, sì, ma la sua intuizione le diceva di più. Carl si era imbottigliato emotivamente per decenni, e ciò era stato cruciale per la sopravvivenza del nucleo di Halley. Adesso il tempo e le circostanze avevano operato la loro curiosa magia, e lui era libero. Il Carl giovane non avrebbe potuto, e non l'aveva fatto, rispondere alle tranquille qualità di Lani. Questo Carl più stagionato e più saggio poteva farlo, avrebbe dovuto farlo e l'avrebbe fatto.
Da qualche parte nei compattati recessi della memoria organica, si attizzò una punta di umorismo e d'ironia. Sta ottenendo ciò di cui aveva bisogno, anche se non è quello che voleva.
Virginia prese nota di mettere in ciclo Lani per un esame fisico di «routine» entro quaranta giorni.
Quell'aspra tempesta si gonfiò. Malgrado fossero sopravvissuti al peggio, al perielio, un residuo di calore filtrava ancora verso l'interno. Virginia mandò uomini, donne e mech a sigillare le gallerie crollate, intere zone dei pozzi le cui pareti cominciavano a spruzzare e ad evaporare.
Riscaldato nel vuoto il ghiaccio si sublimava direttamente in vapore senza diventare liquido. A mano a mano che la pelle sparpagliata di Halley veniva soffiata via, Virginia diede inizio al grande esperimento. Squadre di mech esperti si avventurarono fuori dalle corrose imboccature dei pozzi. Dispersero lastre di silicati amorfi, granelli di sabbia e sudiciume disseccato, filtrato e compattato durante i molti anni di estrazioni minerarie. Molto rapidamente stesero giganteschi campi di lastre congiunte fra loro, nere come l'ardesia, in punti ben scelti accanto all'equatore di Halley. Erano troppo pesanti perché i sottostanti vapori sublimati le spingessero via, e i mech se ne accertarono due volte piantando saldamente dei cavi al suolo per ancorare le lastre.
L'effetto si manifestò con dolorosa lentezza. Adesso, a causa della rotazione, il giorno su Halley durava soltanto tre ore. Nel momento calcolato con precisione, gli scudi di silicato bloccarono la luce del Sole impedendole di raggiungere il ghiaccio. Sopra quella zona i gas in eruzione diminuirono. Altre aree continuarono ad eruttare, e questa differenza nella spinta, combinandosi sopra la superficie rotante di Halley, cominciò ad alterarne sottilmente l'orbita. Da tempo gli astronomi avevano notato questo «effetto razzo» sulle comete rotanti che esponevano temporaneamente dei campi di polvere, ma era sempre stato un effetto spontaneo e temporaneo. Adesso, veniva prodotto artificialmente.
Virginia dispiegava i propri mech in maniera spietatamente decisa. Alcuni si surriscaldarono e si guastarono, altri vennero schiacciati tra le placche più grandi che ondeggiavano e cozzavano in mezzo alla bufera di gas scatenata dal Sole. A un suo ordine, potevano far inclinare le lastre frontalmente, cosicché l'area protetta riprendeva improvvisamente vita, vomitando pennacchi color ambra. Destramente, risolutamente, Virginia «suonò» una sinfonia dinamica con le forze di quel furibondo uragano che sbatteva i mech e i loro carichi. Per giorni, e poi settimane, convogliò l'oltraggiato vapore di Halley per un nuovo scopo. Spinte disequilibrate si allungarono lungo l'orbita della cometa, una mano che, persistente, li trascinava lungo una nuova orbita.
Quattro mesi al di là del perielio, Virginia aspettò l'inevitabile. Aveva schierato un nuovo dispiegamento di radar a raggi infrarossi e a microonde, concentrati lungo il cono di spazio previsto.
Il primo fu lento e minuscolo, una meraviglia della tecnologia «furtiva». Intravide le ampie pale trasparenti che disperdevano il calore del Sole. Soltanto la sua rete a microonde, a modulazione di fase, che operava a dieci gigahertz, riuscì a captarne la debole ombra. Aveva distribuito i ricevitori su uno spessore estremamente sottile su un'estensione di cento chilometri di spazio. Se il missile fosse stato più veloce, Virginia non sarebbe forse riuscita a integrare in tempo i diversi segnali della sua rete. Così, invece, riuscì a frantumare quell'oggetto dal naso camuso a dieci chilometri di distanza da Halley.
Dietro quel primo oggetto, qualche momento più tardi, arrivò qualcosa di grande e ingombrante, che utilizzava il Sole per mimetizzarsi, sovrapponendosi a uno sfondo fornito da un'azzurra e vibrante macchia solare che era sbocciata soltanto un'ora prima da un grande arco magnetico.
Quando colse anche quello con una raffica del laser, Virginia avvertì un brivido percorrerle la mente. Non si sarebbe mai accorta di quella leggera increspatura rivelatrice di luce ultravioletta che tradiva la testata nucleare in arrivo… soltanto, stava controllando la macchia, come parte del loro programma di ricerca in corso. Jeffers aveva avuto ragione quando aveva insistito perché conservassero i sistemi diagnostici scientifici… continuare a imparare era valsa senz'altro la pena.
Il terzo fu veloce, si avvicinava ad almeno cento chilometri al secondo, e continuava ad accelerare, spinto dalla propulsione foto-jonica. Virginia si chiese per quale motivo avessero lasciato acceso l'acceleratore elettrostatico, dal momento che proprio esso rendeva il proiettile assai più visibile. Gli sparò contro con i lanciatori di recente ripristinati, e durante l'intervallo di due secondi aspettò fiduciosa il segnale dell'avvenuta distruzione.
Non ne arrivò nessuno. E la sua rete a modulazione di fase le disse il perché. Il proietto stava manovrando lateralmente, schivando le raffiche di pallottole di ferro. Era evidente che era in grado di captare il ronzio prodotto dalle microonde dei lanciatori e vedere le pallottole a mano a mano che arrivavano.
Allora Virginia sparò senza indugi con tutti i banchi di laser di cui poteva disporre.
Anch'essi mancarono il colpo. Ma comunque mancavano ormai pochissimi secondi, e lei non aveva neppure il tempo di suonare l'allarme nelle gallerie di Halley.
Disperata, portò il livello della corrente della rete dei gigahertz fino alla potenza d'un megawatt e invertì il sistema da RICEVERE a TRASMETTERE. Quello spiegamento non era mai stato usato in quel modo. Per un breve istante avrebbe potuto inviare un saluto ad una civiltà che si trovasse sul lato opposto della stessa Galassia, se a qualcuno lungo la traiettoria del raggio fosse capitato di guardare. I «piatti» a ragnatela delle antenne potevano sondare lo spazio e mirare con precisione. Virginia sparò un impulso di energia elettromagnetica nel punto preciso che fluttuava nella sua triangolazione panoramica.
Avevano armato di salvaguardie quella testata nucleare. Quando quel tornado elettromagnetico le fu sopra, la mente-chip a bordo attivò gli esplosivi compressi prima che potessero evaporare. L'equivalente di venti megatori di cauterizzante energia a fusione sbocciò nel cielo nero sopra Halley, sollevando un lampo accecante di candida nebbia dal ghiaccio stagionato.
Durante tutta la battaglia Virginia non aveva avvertito nessuno. Gli uomini, le donne, le famiglie avevano continuato a vivere la loro vita, imperturbabili. Soltanto quando quelli che lavoravano in superficie si chiesero cosa fosse stato quell'improvviso fulgore, Virginia chiamò Carl e comunicò la notizia che la loro grande battaglia era cominciata e finita nel tempo da lui impiegato per mettere giù la sua tazza di caffè.
CARL
— Nessun segno di altri missili? — domandò Carl, in preda alla tensione.
— Nessuno — disse Virginia. — Ho esteso la mia ricerca a un'ora-luce tutt'intorno a noi, e non ho trovato niente.
Lani entrò fluttuando nella Centrale. Il suo volto era pallido e tirato. — Ho sentito il tuo annuncio, Virginia. Quanto ci sono andati vicini?
— Come il duca di Wellington disse dopo Waterloo… — La voce di Virginia cambiò, assumendo un pesante e aristocratico accento britannico: — Sì, è stata una cosa dannatamente vicina.