Sì, aveva letto che un tempo era stato ad Harvard. E d'estate, naturalmente. Aveva scelto un periodo dell'anno che portava con sé un confortante calore, qualcosa per tenere a bada il gelo dell'antico ghiaccio che ben presto li avrebbe circondati. Era il tardo pomeriggio, sulle pareti del laboratorio, e lentamente i raggi del sole stavano diventando sempre più obliqui col procedere delle ore. Il fronte di una tempesta sfregava il proprio muso sull'orizzonte, i venti sferzavano le ombre vellutate che si raccoglievano sotto gli alberi nodosi. Virginia sentì un calore rassicurante che s'irradiava da quella scena, anche se sapeva che era in realtà la lana che lei indossava a fare quell'effetto. Saul indossava un due pezzi di cotone, azzurro con strisce bianche, con un ampio colletto rinascimentale come unico strappo alla regola. Poteva vedere che Saul non era un uomo che badasse molto al vestire… sarebbe andato in giro nudo, se la natura e la società l'avessero consentito.
Mentre lei lo guardava pensosa, lui scosse la testa irritato, produsse un umpf! e spense di scatto lo schermo.
— Fatto?
— Sì, senza nessun risultato. — Tambureggiò con le dita la superficie della scrivania.
— Che cosa stavi cercando?
— Qualche contaminante che mi era parso di vedere. Era… be', no, niente più del solito.
— Faremo il primo turno insieme — azzardò lei. — Allora avremo tempo in abbondanza per lavorare alle nostre ricerche.
Lui annuì. — Non vedo l'ora. Sedici mesi di pace e di tranquillità, a scavare il ghiaccio e a badare ai nostri simili sotto ghiaccio.
— Ancora qualche settimana e cominceremo a ibernare la gente.
Lui annuì distrattamente. Poi disse a un tratto: — Sono un ospite ben scadente… Qualcosa dal bar?
— Ti rimangono ancora delle razioni alcooliche?
— In questo laboratorio? Posso fare tutto quello che voglio. Ho la mia birra, se te la senti di rischiare.
— Certo. — Sentiva il bisogno di rompere il ghiaccio, di raggiungerlo. Il suo volto era complesso, una lavagna sulla quale il tempo aveva scritto dappertutto, la bocca e gli occhi in conflitto fra loro. I suoi occhi parevano scrutare qualcosa di remoto, forse un problema che stava lentamente venendo a fuoco, un intelletto implacabile. Però le sue labbra tradivano quella concentrazione. Si torsero in una curva ironica, eppure erano piene e sensuali con un accenno di passione e d'energia. La mente gelida che governava quegli occhi non sapeva di quella soggiacente forza sommersa. Le contrazioni gareggiavano fra loro su quel viso, reso ancora più complesso dalla barba ispida, qui pallida, là chiazzata, una fronte luminosa la cui curva intercettava, riflettendo, un raggio dorato di quel tramonto nel New England. Con palese pregustazione fece schioccare i tappi di due bottiglie brune dal lungo collo, assomigliando d'uri tratto ad un robusto mercante un po' incanuito.
Virginia si morse il labbro mentre entrambi sedevano. Adesso che aveva superato i primi momenti e intrapreso i passi che aveva riconsiderato cento volte, scoprì che non riusciva a toglierli gli occhi di dosso.
— Sei qui a causa della nostra conversazione dell'altro giorno, non è vero? — lui disse. D'un tratto la sua espressione era più gentile, si stava aprendo verso l'esterno dopo essere uscito dalla sua autoimmersione. I suoi occhi incontrarono quelli di lei.
— Ah… sì, sì. — Tanto valeva che l'attribuisse a quello.
— Cos'è che aveva tua madre?
— Il… lupus.
— Ah, già. — Una fugace espressione di dolore guizzò nei suoi occhi. Si abbandonò sulla sedia a rete, si passò le mani dietro la nuca, si stiracchiò nella bassa gravità della ruota. — Mi ricordo quegli anni… In quel caso abbiamo trovato una soluzione pulita. Nessun effetto collaterale, come tu tanto chiaramente dimostri. Uhm. Hai mai visto un caso veramente grave?
— No, ho letto…
— Non è la stessa cosa. Sotto il microscopio le cellule non sono uno schieramento compatto di cilindri quasi regolari, sai, sono deformi, meshugenuh, piccole cose torturate. I tessuti connettivi del paziente s'intasano, le giunture si gonfiano, le infezioni si ripetono. Danni al fegato, morte prematura. C'erano dei buoni rilevatori per avvertire i genitori se un bambino ce l'aveva, certo, ma nessuno aveva toccato il vero aspetto: l'assetto genetico… fino a quando non l'abbiamo fatto noi. Scusa, fino a quando non l'ha fatto Simon Percell.
— Ma grande parte del merito può andare anche a te.
Lui rise. — Mia cara, la mia carriera negli ultimi decenni è dipesa dal non attribuirmi certo meriti.
— Con noi percell… è diverso.
Lui esibì uno stanco sorriso. Stanco e circospetto. — Tu, Virginia, sei la chiara espressione di come una mappa sia diversa dal vero territorio.
La donna corrugò la fronte.
— Scusa, non sono chiaro. È una mia abitudine. Abbiamo tracciato una mappa di tutti i nucleotidi del DNA già molto tempo fa. Sapevamo dove si trovava ogni cosa: una grande mappa. Soltanto, non sapevamo qual era il suo significato.
— I miei geni non portano il lupus, voi sapevate come farlo. E i miglioramenti percell sono efficaci.
— Ovviamente. — Un sorriso.
Si sentì arrossire a quel complimento. Frugò dentro la propria mente alla ricerca di qualcosa di adeguato da replicare. — Abbiamo ogni genere di vantaggio…
— È vero… — Era ancora pensoso, intento a riflettere su anni e periodi che lei non poteva conoscere. Eppure quei giorni non sarebbero morti, fintanto che ci fossero stati dei percell. E il retaggio viveva in ogni corridoio di quella spedizione.
Saul sospirò. — Ma non è abbastanza vero. Sicuro, abbiamo messo sotto controllo i disordini dell'emoglobina, la malattia di Huntington, tutti i bersagli facili. Stacca via qualche molecola. Spunta, pota. Cambia il criptogramma e… presto fatto.
— Ho letto che ci sono più di due milioni di persone che vi devono questo.
— Hai messo le mani sul giornale clandestino proibito dei percell? — chiese lui, con finta serietà. — Sì, giusto. Tu sei delle Hawaii. Là abbondano ancora i sentimenti pro percell, no? Chi ha indotto i servizi di sicurezza ad approvare il tuo arruolamento?
— Sono così in gamba che hanno dovuto accettarmi — replicò lei con un sorriso di orgoglio.
— Brava! — applaudì lui. — Brava, davvero. E sei in gamba… Ho dato un'occhiata al tuo dossier là, quando il capitano Cruz mi ha voluto nel comitato addetto al reclutamento.
— Davvero? — D'un tratto si era fatta seria. — Cosa… cosa c'è là dentro? Hanno…
Saul agitò la mano. — Niente sulle tue idee sovversive. Non una virgola.
I suoi occhi si spalancarono, la sua bocca formò un O sbalordito… e poi vide che Saul stava scherzando. — Ah… oh… eh.
— Non gli importa se tu pensi che i percell sono in gamba quanto gli… com'è il gergo?… sì, gli ortho, sai. — Abbassò la voce. — Dal momento che sono tutti maledettamente sicuri che non lo siete.
D'un tratto, Virginia si accorse di aver avuto ragione, il suo atteggiamento davanti agli altri era una maschera. — Loro… pensano questo, vero?
— Temo di sì. Molti di loro, comunque.
— Anche se hanno lasciato che alcuni di noi partecipassero a questa spedizione?
— Lasciato… — Saul cominciò, poi scosse la testa. — Avevano le loro ragioni.
— Ma…
— Virginia, ti è mai passato per la testa che togliersi dai piedi dei percell intelligenti, accaniti lavoratori, potenziali piantagrane, poteva essere un'idea molto attraente?
— Naturalmente. — Corrugò la fronte.
— E qualcuno di voi non è contento di essersi sbarazzato di tutto quel krenk, di quelle fesserie della Terra?