— Fatto.
— Ecco che andiamo — trasmise Andy Carrol. Andy sedeva a prua nella piccola cabina a bolla della nave, e ne aveva il controllo nominale. I getti avvamparono di un azzurro pallido a poppa.
La Whipple s'infilò senza sforzo nel pozzo, evitando con facilità i gialli rivestimenti protettivi.
— Perfetto! — Urlò Andy. — Prendo io la guida.
La protuberanza della chiatta s'inserì con precisione, serrandosi ai binari che le avrebbero impedito di andare alla deriva una volta all'interno. Al comunicatore della tuta, Carl sentì delle grida di giubilo e perfino degli applausi che filtravano da un canale aperto collegato al salone della Edmund.
Il modulo della chiatta si separò, discese. Quelle chiatte a vela erano esili e leggere come un classico veliero del diciannovesimo secolo. La loro struttura snella e argentea trasportava capsule di animazione sospesa, provviste e un equipaggio-robot. Il tutto in moduli cilindrici ben sistemati lungo il telaio tubolare, la colonna vertebrale delle grandi ali che raccoglievano il vento solare. Adesso quei fogli sottilissimi erano ammainati, in attesa di svolgere il monotono servizio di specchi per le serre della superficie. Rimaneva il telaio nudo, una grande bestia adesso spogliata secondo la logica riduzionista, diventata uno scheletro.
E da qualche parte là fuori la Newburn continua a viaggiare. Carl pensò alla quarta chiatta mancante. Perduti. Vittime delle gelide percentuali.
— Sto invertendo la direzione! — Andy fece arretrare la sua nave con cautela. Sarebbe scivolata giù lungo una pista diversa, dentro la propria cavità. Adesso Jeffers aveva preso il comando dei mech all'interno del pozzo per trainare in basso il modulo con i dormienti lungo quasi un chilometro di pozzo, dentro la camera che era stata preparata per accoglierlo.
Carl accese il suo trasmettitore a conduzione ossea: la quinta sonata per violino di Beethoven, l'ultimo movimento, il liquido frusciare dell note del pianoforte. Un premio. Trascinare in giro grandi masse era roba standard, ma dava una sensazione diversa quando c'erano novanta vite umane in gioco. Aveva bisogno di calmarsi, di rilassarsi. Lo spettacolo principale era finito, ma aveva ancora molte ore di lavoro davanti a sé.
Quel fluido e grazioso ondeggiare della musica da camera pareva a Carl una cosa naturale per lavorare a zero gravità. Non sarebbe mai riuscito a capire Jeffers o Sergeov, che ascoltavano quella roba rauca e pesante dei Clash Ceramic mentre lavoravano. Si lanciò verso il basso, facendo segno a quel punto lontano che era il colonnello Ould-Harrad.
Rallentò sopra il Pozzo 6 per accompagnare l'ufficiale africano, il quale era capace di muoversi nello spazio, ma assai meno abituato a farlo in velocità attraverso le gallerie. Un errore, qui, poteva spiaccicarti contro una parete con un impatto da fratturarti le ossa. Ci volevano anni perché i terragnoli si convincessero, finalmente, che la mancanza di peso non significava assenza d'inerzia.
Schizzarono verso il basso. Le pareti di filofibra sfrecciavano via accanto a loro, illuminate a intervalli regolari da pennellate di fosfori gialli elettrificati. Carl osservava il volto scuro di Ould-Harrad per cercarvi una qualche reazione, ma l'uomo teneva gli occhi fissi e attenti davanti a sé, senza dire niente. Carl avvertì una punta di delusione. Aveva rivestito lui stesso ì! pozzo, senza mech, impiegandoci quattordici ore al giorno per rispettare la scadenza. Ed era un bel lavoro. Ma che lui fosse dannato, se qualcuno aveva fatto anche un solo commento in proposito.
Naturalmente Ould-Harrad era un ortho, e piuttosto intransigente, stando a pettegolezzi di corridoio. Durante il viaggio verso l'esterno quell'uomo si era mostrato remoto, formale, il suo volto impassibile non rivelava nulla. Era chiaro che si aspettava che i giovani arrivati si ricordassero del proprio posto. Era improbabile che desse il benvenuto a un percell addetto ai lavori più umili.
Carl scrollò le spalle e alzò il volume della Quinta Sonata. Soltanto dopo un po' gli venne in mente che, dopotutto, stavano precipitando a testa in giù dentro un pozzo in cui le chiazze dell'illummazione fosforescente rimpicciolivano in distanza, convergendo… Perfino in quelle condizioni di microgravità era probabile che i campanelli d'allarme mentale di Ould-Harrad stessero squillando.
— Attivi i freni. La cavità è soltanto a poche centinaia di metri davanti a noi.
— Vedo. Bene — fu la sola risposta.
Rallentarono mentre la galleria si allargava in una camera spaziosa, già in parte rivestita di un brillantte isolante verde tiglio. Il modulo della chiatta dei dormienti stava già discendendo dall'intersezione con il Pozzo 4, un'intrusione dal profilo tronco che quasi riempiva la metà non ancora isolata della cavità. Dunque, quel ghiaccio primordiale produceva luccicanti riflessi neri e grigio-azzurri per effetto delle sciabolate di luce delle lampade degli uomini e dei mech. Carl aveva aiutato a scavare quelle pareti rozzamente intagliate usando grossi laser industriali. Vene di polvere carbonacea e rugginosi conglomerati tracciavano misteriosi disegni arabescati su quelle ampie distese di ghiaccio nero, come se fossero stati scritti da qualche mano biblica.
— Ahhh. — il suono sfuggì a Ould-Harrad quando si arrestò con una brusca frenata. Carl notò che l'uomo pareva sollevato. Forse avrebbero dovuto procedere più lentamente.
— Su — gridò Jeffers sul canale aperto. — Dobbiamo seppellire queste bare.
La voce autoritaria, dalla pronuncia difettosa, di Ould-Harrad, suonò inequivocabile. — Apprezzerei molto se voi uomini non vi riferiste in questo modo alle capsule.
— Sissignore — rispose Jeffers, secco. — Stia sicuro.
Carl trasmise: — Prendo i mech con la codifica azzurra. — E regolò il suo quadro dei comandi su una dozzina di forme che fluttuavano intorno. L'attrezzattura della chiatta delle capsule era quasi del tutto nascosta dai roboidi che le sciamavano intorno, un esercito di moscerini che montavano le varie sezioni.
I dormienti sarebbero stati immagazzinati in tre cavità ben distanti le une dalle altre per ridurre al minimo la probabilità che un unico incidente potesse paralizzare la missione. Le squadre tecniche — computer, scienze della vita, operazioni meccaniche — vennero suddivise in maniera uguale. Quelle capsule a forma di scatola vennero disposte verso l'esterno come le braccia d'una stella marina che si dipartivano dalla vertebra centrale degli apparati di sopravvivenza e controllo. Le apparecchiature del sistema di sopravvivenza si estendevano, perifericamente, formando una specie di zaino bitorzoluto su ciascuna bara. Carl non poteva fare a meno di vederle in quel modo, sia per l'aspetto, sia considerando il fatto che i dormienti, nel loro interno, erano quanto di più vicino alla morte avrebbero potuto essere… pur potendo ancora tornare indietro.
Ogni capsula doveva venir sistemata in nicchie di duroplastica che le proteggevano ma allo stesso tempo permettevano all'interno di scambiar calore con il ghiaccio vicino. L'idea originaria era stata quella di lasciare che il ghiaccio raffreddasse direttamente i dormienti, ma su Encke Carl aveva visto i risultati di quel sistema: c'era un sacco di anidride carbonica e di neve amorfa che potevano vaporizzare in maniera esplosiva, facendo saltare le valvole e i sigilli delle «bare». Non era una buona idea utilizzare sostanze volatili nel vuoto spinto. Così, i tecnici avevano dovuto predisporre dei paracolpi per proteggere i dormienti dai fremiti, dagli urti e dalla morte improvvisa per congelamento.
— Impacca quegli ortho come sardine — trasmise Jeffers sul comunicatore a corto raggio. — Non voglio che si sentano soli.