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Jeffers stava sistemando dei tubi in un punto lì accanto, la sua trasmissione era schermata da quella degli altri. Carl attivò una morsa autoserrante, terminando il proprio lavoro. Poi si allontanò con un calcio.

— Riposati un momento. Qui ci sono anche dei percell.

— Non dannatamente molti. — Era stato Sergeov a parlare, il quale comparve alla vista sbucando da dietro l'argentea sfera d'uno scambiatore di calore. Lo spaziale russo era veloce, abile; mentre Carl guardava, si spostò di colpo, afferrò un cavo da un groviglio che assomigliava a un piatto di spaghetti e lo inserì in un armadietto di controllo.

Quell'agilità rendeva quasi invidioso Carl. Quasi. Il trattamento percell aveva eliminato le malattie del sangue che Sergeov avrebbe erditato dai suoi genitori… ma lo aveva anche privato delle gambe.

Effetti collaterali imprevisti.

Carl si chiese quante volte quella gelida frase analitica l'avesse fatto infuriare, diventare rosso in faccia, indotto a stringere la mano a pugno.

Sergeov era stato uno dei primi, fortunati, insuccessi… ancora vivi. Quei sopravvissuti avevano suscitato i primi timori. La plebaglia poteva vedere le gambe mancanti di Sergeov. Una piccola, sudicia domanda si era intrufolata come un verme nelle loro menti: cos'era che non si poteva vedere? Che ne era stato della sua mente? Era normale? Era ancora umano?

Se era normale riuscire a trangugiare una mezza bottiglia di vodka e anche così riuscire senza difficoltà a far stare in equilibrio i bicchieri vuoti gli uni sopra gli altri, fino a cinque, sì, allora Sergeov era normale.

Meglio che normale. Era andato direttamente nello spazio, dove le gambe, in effetti, erano un intralcio. Tutti quei muscoli e quelle ossa massicce erano inutili in caduta libera, esigendo cibo, ossigeno e tempo per tenerli in esercizio. Rimasugli della lotta contro la gravità. Sergeov era vissuto in orbita dall'età di dieci anni, guadagnando le paghe più alte come assemblatore. Le sue braccia parevano tronchi d'albero; una volta, quand'erano in orbita intorno alla Terra, Carl l'aveva visto trattare un impotente ispettore ortho come se fosse stato una bambola di stracci. L'uomo aveva borbottato un insulto, ma l'aveva prontamente pagato con cinque minuti di umiliazione totale. Eppure, Sergeov non era un sostenitore dell'Altopiano Tre; sprecava le sue energie a raffica, scaricando la sua avversione su tutti i terragnoli.

— Piantala di blaterare — disse Carl. — Vieni ad aiutarmi con questi paracolpi termici.

— Comunque, è vero — insisté Sergeov. — E tutto per delle buone ragioni, sicuro. I percell lavorano bene, così vanno nello spazio. Ciccia! Gli ortho pensano che noi siamo spazzatura, così noi restiamo nello spazio.

Jeffers intervenne: — e finiamo per fare gli autisti agli ortho al di là di Nettuno.

Sergeov sogghignò. Le sue mani, che apparivano eccezionalmente larghe anche attraverso i guanti da vuoto, lavoravano rapidamente in mezzo ai cavi, agili, efficienti, libere dal contrappeso a effetto-leva delle gambe penzolanti. — Da, non preferisco servire da fattorino per gli ortho.

Jefferson ribadì: — Hai dannatamente ragione. Quando potremmo, invece, fare il nostro lavoro.

Carl chiese: — Cosa, per esempio?

Jeffers si girò su se stesso con un braccio, afferrando con l'altro un laser a corto raggio che fluttuava libero. Lo attivò. Una scarica azzurro-bianca schizzò dentro il ghiaccio a molti metri di distanza.

— Ehi! — gridò Sergeov.

Una nebbia bianca esplose davanti a loro. Ribollì via dentro la cavità, diradandosi, ma Ould-Harrad aveva visto. — Ehi, non ho ordinato nessun lavoro di saldatura rapida qua dentro!

— Mi spiace. — Sergeov strizzò l'occhio a Jeffers e gridò: — Era un piccolo ritocco, c'era bisogno di rifondere la giuntura di un loculo.

— Quelle sono persone.

— Mi spiace.

Sergeov sorrise mentre lo diceva. Ould-Harrad era a centinaia di metri di distanza e non poteva vedere il disegno che Jeffers aveva tracciato nel ghiaccio con l'istantanea facilità dovuta alla pratica:

— Non sapevo che tu fossi un figlio di Marte, Jeff — trasmise Carl.

Un fiore-femmina racchiuso dal simbolo di Marte: la rappresentazione grafica di un sogno. Una volta che fosse stato possibile guidare le comete fin dentro il sistema solare interno, sarebbe stato possibile sfruttarle. Ancora più facilmente, una gomitata affibbiata ad arte a una cometa molto al di fuori di Nettuno, uno sbuffo di gas accuratamente calcolalo, avrebbe potuto mandare quelle palle di ghiaccio a schiacciarsi sulle pianure marziane.

Martellare Marte con i nuclei cometari sarebbe servito a creare un'atmosfera. Forse, questo avrebbe perfino indotto i vulcani marziani a eruttare di nuovo. La lenta erosione naturale si sarebbe fermata. L'inaridente marcia degli eoni sarebbe stata messa in fuga: il sogno di Prometeo. Facendo il cielo d'un azzurro aspro, ammantando le montagne di ghiaccio e fiamme, si sarebbero graffiate profondamente le terre, lacerando il permafrost, e liberando altro ghiaccio più antico, sottostante. Nubi, nebbie, e poi la pioggia: un clima sconosciuto da quando il debole calore del Sole aveva fatto evaporare gli ultimi pantani alimentati dai fiumi semiasciutti sul fondo delle intristite valli marziane, miliardi di anni prima, durante quella falsa primavera.

Fra un secolo o giù di lì, un essere umano adeguatamente adattato avrebbe potuto essere in grado di respirare su quella superficie. L'idea era vecchia, ma alcuni percell l'avevano fatta propria. Vedevano in Marte il solo luogo plausibile dove degli esseri umani geneticamente alterati potevano realmente trovare un posto dove vivere. Anche se era ancora arido e freddo e tormentato da strane tempeste, Marte poteva diventare un mondo in cui i loro discendenti, ancora più manipolati geneticamente, sarebbero stati la norma, mentre gli ortho avrebbero sputato fuori i propri polmoni nel giro di pochi minuti.

— Per chi pensi che stia lavorando? — rispose Jeffers.

— È folle — trasmise Carl. — La terraformazione impiegherà secoli. Non è la soluzione dei nostri problemi.

— Un percell può aspettarsi di vivere nello spazio, quanto?, cento anni? Duecento? — Il volto largo, sudato, di Sergeov, irradiò di nuovo il suo inevitabile sorriso.

Jeffers trasmise: — Buttiamoci dentro a un paio di bare. Potremo vederlo tutti.

— Non siamo qui per far questo — disse Carl.

— Jeffers sta soltanto guardando avanti — ribatté semplicemente Sergeov.

— Troppo dannatamente avanti.

— Non esserne troppo sicuro — disse Jeffers, con voce misurata.

Sergeov diede di gomito a Jeffers. — Anche tu sarai un Uber? Due idee non in contraddizione, penso.

Jeffers sbirciò Sergeov con attenzione. — Forse. O forse no.

Carl corrugò la fronte. Tutto questo si stava svolgendo nei comunicatori a corta portata, e ne fu lieto. Uber stava per Ubermenschen, i superuomini di Nietzsche, il passo successivo stabilito dall'evoluzione. Sì, stabilito, concepito. Progettato. Adesso non ci sarebbe stato più una lenta ascesa alla cieca, inciampando ad ogni passo, giudata dalle leggi casuali della natura. Molti percell ritenevano di esser loro il primo passo su una strada lunga e inevitabile.

Carl aveva saputo quali erano le opinioni di Sergeov, ma rimase scioccato nel vedere che anche Jeffers amoreggiava con esse.

Sergeov insistette: — Se gli ortho dicono no alla terraformazione di Marte, io dico sì, semplice.

— È proprio là, nella simulazione della chimica e della fisica, chiaro come qualsiasi cosa — aggiunse Jeffers. — Metti dei mech a spinger giù comete là fuori, oltre Nettuno… ci vorrà un secolo, sì. Noi possiamo farcelo tutto dormendo.