Carl trasmise: — Talvolta un uomo riesce a vedere con maggior chiarezza se tiene la bocca chiusa. — Indicò con un gesto Ould-Harrad che stava sfrecciando nella loro direzione.
— D'accordo, interrompiamo — trasmise Jeffers.
— Comunque, le cose stanno proprio così. Pensaci: il primo passo verso molto di più, forse — concluse Sergeov, scagliandosi lontano con un scrollata muscolare.
Ould-Harrad ispezionò i piani di lavoro per i mech, poi se ne andò. Carl approfittò dell'occasione per allontanarsi e mettersi a lavorare da solo. Non gli era mai piaciuta la politica, e i loro discorsi fuori misura lo avevano inquietato.
S'immerse nella dolce grazia planetare di Beethoven. Spostandosi attraverso le ombre color inchiostro e la gialla luce abbagliante dei fari, spingendo e rimorchiando, annusando l'odore acido della tuta, sentendo il rrrrtttttt delle controversioni vibrargli lungo il braccio, il pizzicare della tuta sulle sue spalle e alle ginocchia a causa del sudore… A Carl venne fatto di pensare alla California.
I suoi genitori lo stavano conducendo in macchina lungo la costa, quando lui gliel'aveva detto.
I quattro anni passati al Caltech erano trascorsi in un lampo di luce dorata e di notti di studio, scherzi di fine settimana e interminabili serie di problemi, laboratori, lezioni, e assai poco amore. Non ne aveva avuto il tempo. Sergeov era così sicuro che i percell erano speciali… be' d'accordo, sì, era magari anche logico che Sergeov dovesse pensarlo, per compensare ciò che non aveva mai avuto. Ma Carl sapeva che le cose stavano diversamente.
Lui se l'era cavata bene perché aveva lavorato, dannazione, non perché fosse più intelligente. Al Caltech aveva sentito una crescente fratellanza con tutti gli uomini e le donne che passavano lunghe ore in stanze solitarie. A differenza degli sgobboni inaciditi o dei ragazzi inesperti, non aveva mai creduto neppure per un momento che gli individui creativi sprecassero il proprio tempo oziando e poi, quand'erano mossi dallo spirito mistico, snocciolassero brillanti idee in preda ad attacchi di furiose e febbricitanti raffiche di travolgente ispirazione.
Per far bene qualcosa ci volevano sopportazione, costanza e uno stimolo continuo.
Questi li aveva. L'intelligenza brillante, no.
Così, mentre i suoi genitori lo conducevano lungo la costa, aveva lottato con quella verità interiore. Aveva presentato domanda a Berkeley per iscriversi all'istituto di astroingegneria e, contro tutte le aspettative, era stato accettato. Non gli avevano offerto nessuna borsa di studio, neppure un posto di assistente insegnante. Ciò significava che, comunque, non lo giudicavano un allievo eccezionale. Suo padre, in tutta onestà, aveva erroneamente scambiato questo per un altro sintomo del crescente pregiudizio contro i bambini creati da Percell. Carl sapeva che non era così. Le università sono bestie lente che non si lasciano smuovere dalla marea del pubblico pregiudizio. Il comitato di ammissione aveva indubbiamente considerato la sua media del 3,3 e avevano visto che era stato ottenuta soprattutto grazie ai buoni voti nei corsi di laboratorio e di disegno. La matematica e la fisica l'avevano messo alle corde più di una volta, stordendolo a colpi di integrazioni complesse a più variabili e di elettronica quantistica.
A nord di Ventura, l'allegro chiacchierio della sua matrigna traboccava di un entusiasmo che lui aveva sempre trovato un po' eccessivo. Non era mai stao capace di dimenticare la lenta morte di sua madre e di abituarsi a questa nuova donna nella vita di suo padre. Così, era rimasto lì, sul sedile posteriore, ad ammirare il paesaggio, cercando di pensare. Le fulve colline di agosto erano scomparse alle loro spalle, rivelando l'azzurro violaceo del mare. La Route 1 scivolava via mentre cercava di spiegare loro i propri dubbi. Le sue storie di remoti campi di battaglia intellettuali risuonavano vuote in contrasto con il solido mondo duraturo esterno. Granai consumati dalle intemperie, il loro legno reso argenteo dall'intensa luce del sole; file di eucalipti, lussureggianti frutteti sui fianchi delle colline, ponti ferroviari lunghi e sottili che scavalcavano su alti trespoli gole impervie, generatori a microfusione scolpiti dentro i pendii delle montagne, mucche che si tenevano immobili come statue all'ombra color inchiostro delle querce frondose. Tutta la spensierata, prodiga ricchezza della Terra.
La Morro Bay pareva una distesa di vetro quando si fermarono lì per la notte. La sua matrigna tutta una serie di «ohòoo» e «ahàaa» nel vedere un agile yacht di alabastro che stava passando via, veloce, al largo, oltre la lingua di sabbia che avvolgeva la baia. Grazioso, sì. Ma a Carl piacevano di più i pescherecci agli ormeggi, sporchi di olio, arrugginiti, scagliosi e ingombri di attrezzature. Si misero a discutere davanti a una zuppa di pesce in un ristorante sul molo. Suo padre era talmente agitato che aveva bevuto lo chardonnay come se fosse acqua, e ne aveva ordinato un'altra bottiglia, tutto rosso in viso.
La mattina dopo si era svegliato sapendo quello che doveva fare. Mentre passavano in mezzo ai pendii erbosi delle colline, girando verso l'interno in direzione di San Luis Obispo fra le basse montagne rocciose, lo disse: tutt'a un tratto e con chiarezza.
E adesso, nel ricordarlo, si avvide di essere stato anche brutale.
Suo padre aveva urlato. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo? con un gesto drammatico della mano. E intendeva dire Berkeley, l'università, dove Carl sapeva che sarebbe affondato nei libri senza più emergerne vivo.
Oppure sarebbe anche riuscito a ottenere una laurea, e un ragionevole lavoro dietro una scrivania. E con incredibile fortuna, un dottorato.
Ma sarebbe rimasto perpetuamente di seconda categoria. E avrebbe sprecato molti anni.
Ricordava la mano di suo padre che fendeva l'aria, quel gesto offeso che abbracciava le colline più oltre. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo?… e quel tutto era stato, in ultima analisi, la Terra.
Carl lo ricordava nei particolari, come la grana d'una fotografia, malgrado i sette anni affollati che erano passati da allora. Anni di apprendimento su come lo spazio funzionava veramente, non la geometrica certezza delle lezioni di fisica e di matematica, dove ogni problema aveva una soluzione pura e semplice in un universo ordinato. Non il mondo sereno di quel lontano e irraggiungibile yacht. Aveva imparato quello che era veramente lo spazio: sudicio, duro, con un mucchio di problemi che non avevano nessuna soluzione.
Era, per i percell, un luogo naturale in cui riunirsi, pattinando alti sopra le masse brulicanti e suppuranti che li temevano e li disprezzavano. C'era anche la bellezza nello spazio, certo, ma le nicchie che l'uomo si era scavato erano più simili alle chiatte arrugginite, ormeggiate alla Morro Bay, logore e puzzolenti, ammaccate e riparate alla meglio, in grado di funzionare bene ma dall'aspetto disastroso.
Attorno a lui planavano masse voluminose, i fari trafiggevano la gelida penombra. Le bare venivano spinte dentro i loculi scavati nel ghiaccio nero. Il violino di Beethoven cantava accompagnato dalle increspature d'un pianoforte attraverso lo sbadigliante silenzio dei secoli. Carl continuò a faticare ripensando ai lunghi anni che aveva passato nello spazio, lontano dalle verdi confusioni della Terra.
SAUL
Era difficile ricordarsi che la sala era in realtà una grande camera di cristallo, scavata nel cuore d'una antica montagna di ghiaccio. Da nessuna parte era visibile il cupo scintillio dell'idrato di carbonio, venato da luccicanti filoni di gas ghiacciato. Dovunque il filofibra rosa e il vivido sigillante a spruzzo giallo nascondevano la materia primordiale del nucleo di Halley.