Carl ebbe una cupa premonizione. Il macigno aveva accumulato calore per settimane, lasciando che si diffondesse nella poltiglia subito dietro ad esso, una sacca di anidride carbonica e metano imprigionati. Questa zuppa spumeggiante sarebbe stata perforata nel suo punto critico, gli sarebbe bastata soltanto una temperatura un po' più alta o una frazione di pressione in meno per esplodere nella fase di vapore.
Oh, per l'amor di Cristo, Umolanda, non…
Un mech fece scivolare la sbarra che usava come leva intorno al macigno, penetrando nella riserva di poltiglia. Umolanda vide il robot che barcollava, si riprendeva. Gli disse di provare di nuovo e si avvicinò un po' di più per osservare.
Il mech era lento, cauto. La sua «giacca» d'alluminio era chiazzata e scolorita dopo parecchi giorni nel ghiaccio, ma il suo piccolo schermo con i dati mostrava che stava funzionando alla perfezione. Usando come punto di appoggio la propria pastoia alla parete, fece leva intorno al macigno, spinse… e il grumo di ferro si disincagliò.
No!
L'energia dei gas supercompressi si liberò di colpo con la violenza d'un maglio. L'esplosione scagliò via la sbarra utilizzata come leva, strappata al mech, come un missile sparato da un cannone.
Umolanda era a due metri di distanza. La leva le si piantò nel ventre. Il microschermo della pasticca mnemonica si spense. Carl sbatté gli occhi per scacciare le lacrime. Aspettò fino a quando i mech non ebbero riaperto la galleria. Non c'era proprio nessuna necessità di affrettarsi.
Il comandante della missione, Miguel Cruz, sospese le operazioni per due interi turni. La squadra d'insediamento aveva lavorato a tutto spiano per una settimana filata. Due morti in un giorno indicavano che stavano commettendo errori dovuti alla pura e semplice stanchezza.
Carl risalì con l'ultimo traghetto. La superficie chiazzata pareva oscurarsi con la distanza: il nucleo cometario rimpicciolì fino a diventare un punto nerastro che galleggiava in una nube giallo-arancione. Malgrado l'alone confuso della chioma fosse ancora visibile con un piccolo telescopio dalla Terra, lì, a poca distanza dalla testa quei sipari tremolanti di ioni risplendevano appena, come un delicato merletto. Gas e grani di polvere continuavano ancora a staccarsi dalla superficie di Halley, rendendo rischioso il lavoro dei piloti dei cargo. La maggior parte dei gas proiettati verso l'esterno non erano generati dalle stimolo ormai morente del Sole, bensì dal calore residuo degli umani.
L'incidente che aveva ucciso Umolanda aveva vomitato fuori una nebbia perlacea per un'ora, fino a quando il lago interno di poltiglia non era completamente evaporato all'esterno. Se qualcuno sulla Terra avesse guardato attraverso un potente telescopio, avrebbe captato un lieve rischiararsi sulla testa della cometa. Era un fugace monumento alla memoria. Quell'accecante tempesta aveva spinto i suoi mech dentro il pozzo, smuovendo abbastanza ghiaccio da seppellirla. Carl e gli altri avevano dovuto rimaner fuori fino a quando era stato troppo tardi per recuperarla e scongelarla a poco a poco per un possibile intervento medico. Umolanda era perduta.
Mentre il traghetto navigava verso l'esterno, le code gemelle, una di polvere e l'altra di ioni fluorescenti, si allungavano nello spazio, pallidi e scorciati resti della gloria che aveva affascinato la Terra soltanto due mesi prima. Nastri sbrindellati si biforcavano verso il puntolino ardente di Giove. Inconsapevole, Carl se ne stava lungo disteso, sonnecchiando, mentre il traghetto si sollevava sempre più per incontrare la Edmund.
Quando entrarono sferragliando nella camera di equilibrio, Carl si sfilò la tuta e scivolò in direzione della mormorante ruota gravitazionale di prua. Scese lungo una delle scale fisse a pioli e, barcollando, uscì in mezzo all'inusuale attrazione d'un ottavo di gravità, avvertendo la stanchezza scendergli fin nel profondo delle ossa con l'arrivo del peso.
Sì, il sonno pensò. Che venga pure a ricucirmi tutti gli strappi e le sfrangiature…
Virginia veniva per prima, però. Non la vedeva da secoli.
Era nel suo modulo di lavoro, naturalmente, a metà strada lungo la ruota. In quei giorni, era difficile che ne uscisse fuori. La porta si scostò con un sibilo. Quando Carl scivolò dentro quel mondo sferico di gusci di memoria incapsulati, c'era quasi un silenzio da cattedrale, una sensazione di presenza e di ronzante attività appena al di fuori della gamma uditiva. Carl prese posto con calma accanto al suo seggiolino su braccio snodabile, aspettando fino a quando lei non avesse potuto tirarsi fuori dallo stato interattivo. Collegata ai canali attraverso un'unione neurale diretta, e dei servomeccanismi applicati ai polsi, la donna si muoveva appena. Doveva senz'altro sapere che lui si trovava là, ma non ne dava nessun segno.
Di tanto in tanto, il suo magro corpo si agitava e sussultava. Come un cane che stia sognando pensò Carl, il quale cerca d'inseguire immaginari conigli.
I suoi lunghi lineamenti, mezzo polinesiani, erano rivolti verso i banchi d'immagini olografiche sospese sopra di lei, e i suoi occhi non guizzarono lateralmente neppure una volta per guardarlo. Fissava rapita scene multiple in movimento, masse slittanti di dati in continuo guizzare, diagrammi geometrici che mutavano e si evolvevano raccontando nuove storie.
Carl attese, mentre lei risolveva qualche indecifrabile problema. Il suo lungo volto si tese per un attimo, poi si rilassò, come se avesse saltato qualche ostacolo. Era delicata, anche lei con gli zigomi alti, come Umolanda. Come un terzo dell'equipaggio della spedizione, era una percell, un prodotto del programma genetico per la correzione delle malattie ereditarie di Simon Percell. Carl si chiese oziosamente se le ossa sottili, i lineamenti aristocratici, non fossero caratteristiche che lo stregone del DNA aveva introdotto alla chetichella. Era possibile. Quell'uomo era stato un genio. Però il volto di Carl era largo, e comune, e lui era stato «sviluppato» — come si diceva con quel gergo antisettico — a meno di un anno di distanza da Virginia. Così, era allora possibile che Simon avesse curato quei particolari soltanto con le donne. Viste le storie d'ogni genere che correvano su quell'uomo, non si poteva escludere la possibilità.
Secondo un'opinione da tutti condivisa, Virginia Kaninamanu Herbert era chiaramente un esperimento riuscito. Una mescolanza di razze del Pacifico su una base hawaiana, aveva un'intelligenza pronta e acuta, deliziosamente imprevedibile. C'era un'energia irrequieta nei suoi occhi mentre si muovevano lanciando rapidi sguardi sfreccianti verso la tumultuante miriade d'immagini impalpabili davanti a lei. Poco più in basso, la sua bocca mostrava una tranquilla tensione, leggermente contratta, pensierosa e assorta. Carl pensava che non fosse particolarmente attraente nel senso usuale della parola: il suo lungo volto finiva per darle un aspetto allampanato, anche se la serena levigatezza della sua pelle color mandorla compensava questo effetto, ma la fronte era ampia, la bocca troppo larga, il mento tronco e squadrato, non stucchevolmente arrotondato come la moda esigeva oggi.
A Carl non importava un bel niente. In lei c'era una verve compressa, una donna nascosta che lui bramava raggiungere. Eppure, da quando la conosceva, lei era sempre rimasta dentro il suo bozzolo di cortesia. Era amichevole, ma niente di più. Lui era deciso a cambiare quello stato di cose.
Sullo schermo principale, delle travi ruotate obliquamente combaciarono le une con le altre in un preciso incastro. L'intelaiatura s'immobilizzò. Fatto.
D'un tratto Virginia si animò, come se una qualche fluida intelligenza fosse tornata dai labirinti della macchina che le faceva da controparte. Si tolse gli imput dal polso. La bianca presa del suo connettore neurale lampeggiò brevemente quando la spina venne via. Scosse i capelli per rimetterli in ordine.
— Carl! Speravo proprio che aspettassi che io finissi.