Un certo numero di membri dell'equipaggio parevano condividere la convinzione che Virginia avesse una specie di ingresso segreto ai circuiti principali della missione a bordo della Edmund. Qualcuno le aveva perfino fatto delle richieste molto più esplicite. Cortesemente, lei non si era impegnata con nessuno di loro. La gente accettava quel genere di risposta assai meglio che un immediato rifiuto.
Ad essere onesta, con tutto quello che aveva dovuto fare, Virginia si era del tutto dimenticata, fino a quel momento, di quella timida preghiera di Lani.
Dovettero premere sulla cassa per sistemarla a ridosso dell'altro equipaggiamento. Adesso l'attrazione di Halley era come la melassa.
— Ti sono davvero grata. Non me la sentivo proprio di andare là sotto a dormire… a passare tutto quel tempo… con la mente che mi gira come una trottola. Ci sono cose… cose che devo risolvere con me stessa.
Malgrado avesse girato a metà la testa dall'altra parte mentre parlava, adesso il volto di Lani era visibile sotto il visore del suo casco. La giovane donna avrebbe facilmente potuto essere hawaiana, con i suoi lineamenti lievemente eurasiatici e la pelle sana e soda. In questo momento, però, la spaziale di seconda classe Lani Nguyen pareva turbata, la sua bocca si muoveva come se stesse cercando delle parole per esprimersi.
Oh, c'era da aspettarselo pensò Virginia. Sulla Terra ci avevano detto che a turno tutti avremmo dovuto fare da terapisti, sacerdoti, confidenti l'uno dell'altro. E poi hanno caricato la spedizione di esiliati, menomati e profughi.
Come me. Sospirò. Sii onesta con te stessa, Ginnie. Ti senti meno confusa di questa povera ragazza?
Aspettò, e alla fine Lani parlò di nuovo.
— Virginia, mi stavo chiedendo… uhm, cosa pensi delle leggi sulla Nascita e l'Infanzia?
Virginia fu lieta che il mech non potesse mostrare la sua viva sorpresa.
— Be', uhm, non mi sembra del tutto giusta… anche se immagino ci siano argomentazioni da entrambe le parti. Immagino che non ti piacciano molto, Lani. Dopotutto, tu sei una…
— Una spaziale, sì. — Lani annuì. — I miei genitori erano tecnoliberali della California. Mi hanno raccontato storie sin da quando ero bambina, su come il futuro dell'umanità sarebbe stato fuori, nello spazio. Come un giorno l'umanità avrebbe riacquistato nerbo e iniziativa qui fuori, ridiventando ricca, felice e generosa. Soltanto gli individui grigi e monotoni del tipo rimango-a-casa, avrebbero continuato a vivere sulla Terra.
A disagio, Virginia cambiò posizione. Il mech rispose con una nuova inclinazione del pelvi.
— I tuoi genitori avevano ragione, Lani. Lo spazio sta salvando l'umanità. Perfino i reazionari e gli archisti lo sanno. Perché pensi che le Hawai abbiamo investito così tanto in questa spedizione? Quei sogni diverranno realtà, un giorno.
«Immagino sia dovuto al fatto che il Secolo dell'Inferno è ancora fresco nei ricordi di tutti. È per questo che tanti paesi sono così sospettosi. Per prima cosa lo spazio dovrà servire la Terra fino a quando la ripresa non sarà stata completata. Non preoccuparti, comunque. Sono sicura che vivrai fino a vedere il Terzo Altopiano.
La vista del mech si adattò alle ombre. Attraverso la visiera dell'altra donna, Virginia la vide scuotere la testa.
— Sarà troppo tardi per me, probabilmente. Dovrò andare a vivere sulla Terra per avere i miei bambini, e nessuno spaziale maschio vorrà lasciare il Buio per restare al mio fianco, ridiventando un latoterra.
Eccolo, esposto come una ferita aperta. Virginia sentì il palmo delle sue mani diventare sudaticcio sui suoi comandi waldo. Se c'era un argomento del quale avrebbe preferito non discutere, era proprio questo.
Replicò, con finta leggerezza: — Non è una esagerazione?
Lani sollevò lo sguardo. I suoi occhi scuri erano tristi.
— Guarda le cifre, Virginia. Tutti gli spaziali hanno immagazzinato lo sperma e gli ovuli nelle banche sulla Terra. La maggior parte genera per interposta persona, salvo quelli che sono percell, che non riescono a trovare genitori surrogati per la loro prole. Stanno ancora peggio di noi ortho.
Virginia si sentì investire da una sferzata di selvaggia ironia. Per lo meno, quella ragazza aveva qualcosa da immagazzinare. Aveva un biglietto per il futuro.
Io che cos'ho, se non le mie macchine? pensò Virginia.
— I livelli radioattivi in cui vivete lo rendono necessario, non è vero, Lani? — Una verità lapalissiana, naturalmente.
Lani scrollò le spalle.
— Se ci avessero lasciato costruire delle vere colonie spaziali, invece di semplici fabbriche e capanne per la sopravvivenza in orbita, noi spaziali potremmo sposarci e metter su famiglia insieme. Così, invece, quelle spaziali che tornano a casa e chiedono di riavere il loro plasma, sono costrette a rimanere laggiù con i loro figli. La maggior parte di noi è costretta a sposare dei terricoli, dal momento che nessun uomo come Car… dal momento che nessun uomo dello spazio rinuncerebbe mai al Buio senza lottare.
Virginia cercò di riportare la conversazione sull'astratto, dove si trovava assai più a suo agio. — È una situazione dura, Lani, ma le stesse leggi…
— Le leggi sulla Nascita e sull'Infanzia sono un imbroglio! Tu sai che sono soltanto misure reazionarie contro qualunque cosa appaia nuova e faccia paura alle masse! Non vogliono perdere il controllo su di noi qua fuori! Hanno terrore dei cambiamenti!
Virginia soffocò la sua reazione impulsiva: si bloccò mentre era sul punto di dire alla ragazza di non insegnare a sua nonna come succhiare le uova. Cosa mai aveva da insegnare a lei una sana ragazza ortho sulla vita? Sull'amarezza e l'ombra cupa delle persecuzioni? C'era soltanto un uomo, là fuori, al quale Virginia era pronta a prestare ascolto, o che aveva il diritto di dire qualcosa su quelle faccende.
Qualcosa di tutto questo doveva essere stato trasmesso dalla posizione del mech ospite sulle sue sei gambe. La donna in tuta spaziale si raddrizzò e scosse la testa.
— Mi spiace di aver gridato, Virginia.
— Non è niente, Lani. Su, andiamo a prendere l'ultima cassa. Sai bene che l'inferno non è niente, paragonato al furore di un sottufficiale davanti ad un lavoro incompleto. Vogliamo finire prima che arrivi Sua Grazia, lo spaziale di prima classe Carl Osborn.
Lani scoppiò a ridere, ma terminò tirando su col naso e scuotendo la testa. Virginia allungò delicatamente un braccio manipolatore e toccò la manica isolata della tuta spaziale. L'altra donna annuì e uscirono di nuovo sotto le stelle a prendere l'ultima cassa.
Avevano trascinato il voluminoso contenitore fino a metà strada dalla struttura della camera di equilibrio, quando una sventagliata di luce uscì dalla porta dell'ascensore, subito dopo lo spruzzo color avorio del gas liberato.
Ne emerse una figura alta, voluminosa, in tuta spaziale. Virginia riconobbe Carl Osborn dai suoi languidi e fluidi movimenti lungo il cavo-guida ancora prima di riuscire a distinguere il disegno che codificava il suo nome sulla cotta.
— Ciao, Carl — trasmise Lani.
— In perfetto orario, a quanto vedo — aggiunse Virginia. Carl si fermò di colpo.
— Virginia! Sei qua sopra? Bene, bene, non riuscivi a star lontana da me, vero?
Rivolse un inchino al suo mech. — È una bella giornata per una passeggiata in superficie. Dovresti avvertirmi la prossima volta che hai intenzione di salire.
Finalmente Carl si girò e salutò la sua compagna di squadra con un cenno del capo.
— Ciao, Lani. Fai attenzione con quella estremità. Sta scivolando.
— Oh, scusa, Carl. La prendo…
In effetti Carl avrebbe dovuto rivolgersi alla persona in carne e ossa prima di parlare con quella presente soltanto in waldo. Il casco di Lani Nguyen si era opacizzato sotto il vivido bagliore del sole, così Virginia non era riuscita a cogliere la reazione della ragazza. Ma aveva i propri sospetti.