Carl si fece strada con cautela, camminando sulla punta dei piedi. Le svettanti piramidi d'un delicato azzurro-arsenico avevano un aspetto particolarmente pericoloso. Loro lavoravano in pelle-tuta, guaine sottili e sufficientemente flessibili per i lavori difficili: derivavano dallo stesso tessuto di catene molecolari dei rivestimenti dei corridoi. Ma un orlo davvero aguzzo avrebbe potuto benissimo tagliarle.
Carl guardò davanti a sé, strizzando gli occhi per proteggerli dagli arcobaleni di luce che come tanti nastri parevano concentrarsi su di lui. Ricordò un problema di ottica dai tempi del Caltech, più di dieci anni prima. Se vi foste trovati all'interno di una sfera riflettente, cosa avreste visto? Quante immagini? L'impulso naturale era quello di mettersi a sommare i riflessi dei riflessi dei riflessi all'infinito. La vera risposta era che avreste visto un'immagine soltanto.
Non qui, però. Ogni riflessione ne alimentava altre, producendo una miriade di sciami di minuscoli Carl in technicolor. Si muovevano come lui, insetti di ogni colore, sospesi in una nube al di là della loro portata.
Faceva venire le vertigini. Migliaia di Lani, ognuna seriamente impegnata a fare fotografie. Fra esse c'era una macchia scura. Carl si diede una piccola spinta e planò fino a quell'ombra.
— Ehi, qui c'è una specie di frattura.
— Fai attenzione agli orli aguzzi, Carl.
— Sì.
Girò lentamente e calò la testa dentro il foro. — Pare che prosegua.
— Molto lontano?
— Non lo so. C'è una specie di roba marrone semiliquida qui dentro. Qualcosa di umido, comunque.
— Già. Lasciala ai ragazzi della squadra biologica.
— D'accordo. — Carl si raddrizzò, planando pigramente alla deriva sopra un campo di luccicanti cuspidi di cristallo. — Ehi, è ora di pranzo.
— Mangiamo qui.
— Potremmo avere della buona roba calda vicino al primo gruppo di loculi.
Lani fece una smorfia — E toglierci la tuta soltanto per entrare? Il fagiano arrosto con la salsa di castagne non vale il tempo che ci toccherà perdere per ripulirci da questo pasticcio.
S'impastoiarono alla parete che nominalmente faceva da soffitto e tirarono fuori i tubetti alimentari. — Anche autoriscaldata, questa roba è proprio orrenda — brontolò Carl.
— Per me vale senz'altro la pena, non fosse altro che per restare lontana dagli altri.
— Già. So cosa vuoi dire.
Le loro razioni erano contenute negli zaini, riscaldate là dentro e disponibili attraverso un tubicino che emergeva accanto al mento. Mangiare non era un procedimento elegante. Lani aveva una curiosa ricercatezza naturale che la induceva a voltare la testa ad ogni sorsata di quella leggera brodaglia aromatizzata. Fluttuava con le braccia e le ginocchia ripiegata in una graziosa posizione seduta di tipo asiatico ad arti incrociati, d'una economicità estrema, assai più elegante del solito modo di rannicchiarsi degli spaziali. Carl sorrise. Era una lavoratrice indefessa, sottile e agile, con un'energia costante e spietata.
— Mi piace, quando ci troviamo soli.
— Uh, uhm.
— Specialmente in un posto così delizioso, così bene… ingioiellato.
— Giusto. Così dannatamente grazioso. — Carl s'interrogò vagamente su Virginia.
— Dobbiamo parlarne con qualcuno?
— Uh?
— Questo non potrebbe essere un posto… soltanto per noi?
— Ma… perché?
— Per stare soli. Potremmo venire qui e crogiolarci alla luce e… be', per avere il tempo di parlare.
Quella piega della conversazione non faceva sentire Carl a suo agio. — Ascolta, qualcuno finirà per trovarlo abbastanza presto. Voglio dire, dovremmo comunque lasciare un boccaporto di uscita, per poter tornare qua dentro.
— No, se lo mimetizzassimo in qualche modo.
Carl lottò per trovare una risposta, qualche ragione tecnica per la quale la cosa non avrebbe funzionato. — Vuoi dire, contrassegnarlo come uno sportello per la pressione? Qualcosa di simile?
— Suppongo di sì. — Lo studiò con attenzione, ma non disse altro.
Dopo un breve silenzio, Carl riprese: — Qualcuno comunque se ne accorgerebbe. Sarebbe proprio da Samuelson venire a controllare il nostro lavoro. Farebbe scattare il sigillo, e lui stesso farebbe la scoperta.
— Lo pensi?
— Sicuro. Samuelson è un tipo… sì… rigoroso. — Si era trattenuto appena in tempo dal dire, Un ortho rigoroso, di quelli pignoli attaccati al regolamento. Anche Lani era un ortho, ma di quelli buoni.
— Suppongo che dovremo riferirlo al Planetario.
— Sì. Quiverian non vedrà l'ora di buttarsi sui pulsanti.
— Comunque… mi piacerebbe molto avere, sai che cosa?, un posto tutto per me.
— C'è un sacco di volume in Halley, quasi trecento chilometri cubi. — Non poteva assolutamente immaginare se stesso a desiderare di trascorrere il tempo accovacciato dentro un buco dalle pareti di ghiaccio, anche se fosse servito a tenersi appartati dalle altre dodici persone del Primo Turno. Meglio andar fuori, se proprio si voleva qualcosa del genere, avrebbero avuto l'intero sistema solare da contemplare.
— Be', forse più tardi, allora. Potremmo fare tutto da soli senza i mech. — Lani lo fissò con lo sguardo speranzoso di una cerbiatta. Carl guardò altrove, innervosito.
— Non so. Forse dovremo isolarlo.
A meno che non riuscisse a guidare la conversazione su Virginia, voleva deviare il dialogo lontano dalle questioni personali, per mantenere il loro rapporto amichevole ma su un piano strettamente professionale. Cominciò a parlare dell'isolamento, e quanto qui la situazione fosse peggiore che su Encke.
Agli esseri umani piacevano temperature intorno ai trecento gradi assoluti, ma alcuni dei gas ghiacciati ribollivano d'una furiosa trasformazione già intorno ai cento gradi assoluti. Anche se appena sfiorati da una pelle-tuta, avrebbero prodotto uno sbuffo improvviso di gas in risposta. Mantenere quel differenziale di duecento gradi aveva significato sviluppare degli isolanti flessibili a strati. Il minimo soffio d'aria avrebbe fatto evaporare le stesse pareti in una camera non isolata.
Ci sarebbe sempre stata qualche vaporizzazione, cosicché il sistema di gallerie doveva lasciare che il vapore sfuggisse verso la superficie, dove veniva sfiatato verso lo spazio aperto. Allo stesso tempo la raccolta controllata del ghiaccio rappresentava la chiave per il successo della spedizione. La biosfera aveva bisogno d'un flusso d'acqua, di gas, perfino dei metalli e della graniglia che contaminavano la cometa. Poi, una parte dell'evaporazione veniva recuperata, filtrata per tenere basso il livello dei cianuri, per essere riciclata negli habitat.
Senza un sistema del tutto automatizzato per fornire liquidi e gas, dovevano esserci più persone sveglie e operanti. Ciò, a sua volta, avrebbe aumentato le esigenze della biomatrice, il che avrebbe alimentato la spirale dei costi. Questa era la ragione fondamentale per cui era necessario vivere all'interno del nucleo di Halley. Come al solito, i profitti e le perdite avevano l'ultima parola.
Impedire che i portelli e gli oblò disperdessero calore sul vicino ghiaccio era un lavoro delicato e tedioso che a Carl non piaceva. Si diffuse su questo per parecchi minuti, non perché fosse portato a esprimere rimostranze, ma perché non riusciva a pensare a nessun'altra maniera per mantenere il controllo della conversazione. Finalmente, arrivò alla conclusione. Vi fu un lungo e scomodo silenzio.
— Speravo che potessimo trovare un po' di tempo per rimanere soli insieme — dichiarò Lani, in tutta semplicità. Anche se sbatté le palpebre parecchie volte.
— Sì… già, l'avevo capito.
— L'hai sentito?
— Be'…
— Sono tre anni che ti conosco, ormai. Abbastanza da capire quanto tu sia speciale. — I suoi occhi erano grandi, neri e profondi come uno stagno. Era franca, chiara, ed era ovvio che le era necessario uno sforzo per non guardare altrove. Carl si rese conto che doveva aver ripassato tra sé più volte questa parte.