Cosa che questo mech si avviò a fare proprio mentre Virginia guardava. Cercò d'individuare la vegetante poltiglia verde e di pulirla via con una spugna aspirante. Giunto verso la metà del pannello, però, il braccio ruotò nel suo alveolo e affondò dentro il fosforo con un croccante crepitio. La luminescenza tremolò, diminuì.
Dannazione. Virginia fece arretrare il mech e lo immobilizzò. Poi si rituffò nella subroutine che aveva appena scritto, cercando di trovare il difetto che aveva portato il braccio del mech a incepparsi in quel passaggio cruciale.
— Virginia! Me ne servono altri quattro nel Pozzo 4, subito! — interloquì la voce di Carl.
Virginia fece una smorfia. — Non puoi averli! Tutti occupati. — Continuò a spostare intorno le unità logiche secondo un assetto tridimensionale, non volendo che la struttura del sottoprogramma le sfuggisse. Soltanto un tocco qui, un minuscolo aggiustamento lì, e…
— Ehi, mi servono adesso!
— Togliti di torno, Carl. Ho da fare.
— E io no? Quassù la poltiglia ci sta mangiando vivi.
— Siamo già troppo pochi.
— Devo averli. Adesso!
Non c'è niente da fare. Digitò un'ultima modifica e attivò la sequenza di «editing». Su un canale separato, trasmise: — JonVon, dài un'occhiata a questo. Qual è il problema? Sono troppo stupida per vederlo.
PERMESSO DI INTERROGARE IL MECH E AGGIUSTARE IL SOFTWARE DI BORDO?
Quello era un po' rischioso; JonVon era bravissimo nelle analisi, ma non aveva molta esperienza nel lavorare direttamente con i mech. Che diavolo, questa è una crisi. — Sicuro.
— Virginia? Non lasciarmi nella peste.
— Sono qui. Mi sento come un cuoco che deve organizzare un banchetto in un batter d'occhio, cercando di ridistribuire questi mech. Fra te e Lani e Jim, non ho il tempo per riprogrammare quei mech di superficie per il lavoro di galleria.
La voce di Carl si ammutolì per un po'. — Be', mi spiace, ma qui mi trovo in una brutta situazione. Questa roba si sta diffondendo in fretta, qui deve esserci più umidità nell'aria. Potremmo dover pulire via tutto nel vuoto. Sarebbe più dura.
— Lo so, lo so. — Carl spiegava sempre pazientemente perché aveva bisogno di aiuto, come se lei non capisse.
Cambiò canale, controllò la situazione accanto alla Camera di Equilibrio 3, e impartì tutta una raffica di ordini svincolanti (per scavalcare le precedenti istruzioni) direttamente attraverso il suo contatto a induzione neurale, per impedire che una valvola surriscaldata fondesse aprendo un foro nella parete a ridosso del vuoto. Poi richiamò Carclass="underline" — Senti, non posso farlo subito.
— Come mai? — Era forse un tono impaziente, irritato? Be', che andasse al diavolo.
— Perché ho gli alligatori che mi arrivano al sedere! — urlò, e interruppe il collegamento.
Questo la fece sentire bene.
CARL
Cominciò con un fischio alto e acuto.
Carl stava lavorando all'installazione di un tubo, maledicendo la poltiglia verde che lo rendeva viscido, quando sentì il suono, dapprima soltanto un gemito lontano, stridulo. Proveniva da un punto molto distante lungo il Pozzo 3, vicino alla camera di equilibrio in superficie, e suppose che quella singola nota insistente giungesse da qualcuno che lavorava più oltre, verso la Centrale.
Era soltanto perché si trovavano molto a corto di manodopera. Carl aveva lavorato con uno dei mech riprogrammati di Virginia, ma non appena era possibile, evitava di farlo. Interferiva con il suo lavoro tutte le volte che la macchina parlava con la cadenza che la distingueva.
I primi risvegli avrebbero dovuto «scongelarsi» martedì prossimo, e Carl sperava che ciò avrebbe contribuito ad aiutarli nei loro lavori. La poltiglia era viscida, fetida, e persistente; la odiava.
E quei dannati filamenti che s'impigliavano negli sfiatatoi. Forse Jim Vidor ha ragione, dovrei togliere Saul dalla quarantena, fargli studiare questa roba da vicino.
Se si fosse trovato insieme a un compagno, avrebbe potuto abbandonarsi meno alle riflessioni, e l'avrebbe sentito prima. Il suono continuò mentre lui stringeva la giuntura con la sua chiave inglese, il rrrrrttttt rrrrrrttttt rrrrrrttttt gli trasmetteva le vibrazioni fin dentro le spalle.
Carl sollevò la testa. Sentì soffiare una brezza.
C'era sempre una circolazione d'aria nello spazio, spinta da ventilatori sovralimentati se le differenze di temperatura non fornivano abbastanza convenzione. Ma non così lontano dalla Centrale, non come quel flusso costante, leggero come una piuma, che gli sfiorava gli orecchi.
Si fermò, ascoltò. La stessa nota costante. Arrivava da sotto, dal fondo del pozzo, verso la Centrale.
Poi gli orecchi gli schioccarono.
Tirò su i suoi arnesi e si allontanò con una spinta, con un singolo fluido movimento, senza arricciarsi. Una scarica dei suoi getti, e si tuffò verso il basso. I fosfori punteggiavano il pozzo con chiazze di luce giallo-verde ogni cento metri; automaticamente li usò per valutare la propria velocità, per impedire un'accelerazione che poi non sarebbe più stato capace di frenare. Macchie di poltiglia verde coprivano alcuni dei fosfori: crescevano alimentandosi della debole energia emessa da questi.
Passò davanti a gallerie che correvano orizzontali, 3B, 3C, e 3D, ma il suono non proveniva da esse. Nell'arrivare alla 3E rallentò, perché il sibilo si stava facendo più intenso e un costante risucchio stava cercando di trascinarlo verso il basso. Carl aveva sempre detestato i rumori acuti, e questo adesso era stridente, raschiante. Lui stava cercando una giuntura rotta nell'isolante, ma non era affatto preparato a quello che trovò.
Vermi! Sbatté gli occhi stupefatto.
Creature purpuree simili a serpenti che si dimenavano colando poltiglia. Umidi, viscidi, ondeggiavano lentamente formando un cerchio intorno all'ingresso di 3E. Era come una bocca vivente che chiamasse con un lacerante urlo di sirena, il vento gemeva, lo strattonava e lo succhiava verso quelle invitanti ciglia purpuree che si flettevano allungandosi avide e basse verso di lui…
Annaspò intorno ai comandi dei suoi getti e li fece pulsare al massimo, all'indietro. Il vento gli turbinò accanto, facendo sfrecciare via i cavi dei suoi utensili, strappandogli dalla testa il berretto di lana, arruffandogli i capelli. Si girò di scatto e si afferrò ad un appiglio sulla parete del pozzo. Adesso il rumore era assordante, e lui sapeva che tra non molto sarebbe piombato nel più completo stordimento.
Cosa diavolo…!
Con uno strappo aprì la tasca di emergenza e tirò fuori un casco in plastifoglia. Gli ci volle un lungo istante per ficcarlo dentro l'anello sigillante a O della sua pelle-tuta. È da parecchio tempo che non faccio questa esercitazione.
Fece presa. Tirò la linguetta della bomboletta INIEZIONE. La bolla si espanse con un rassicurante wuush pneumatico. Ciò gli forniva un certo isolamento acustico, ma non molto. Non abbastanza.
— È al Pozzo 3, galleria E — trasmise sul canale di emergenza. — Tre E, Tre E, Tre E. Brutta. Tutta l'area intorno al collare è lacerata.
Una debole voce lo chiamò al fonosseo: — Non puoi rattopparla con la schiuma a spruzzo? Qualcuno sta per arrivare.
— Dubito di poterlo fare. Qualcosa… qualcosa è entrato dentro. Questo non è soltanto uno strappo, di sicuro.
Carl si morse il labbro. Non sapeva come descriverlo. La squadra avrebbe impiegato soltanto pochi minuti ad arrivare, ma il pozzo stava perdendo torrenti d'aria.