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Presto trovò il modo di farlo.

Si specializzò in miracoli.

1

All’insegna del capriccio

La titanide uscì dalla nebbia al galoppo, come sbucata da un folle carosello. Prendete un centauro tradizionale, per metà cavallo e per metà uomo, e dipingetelo come un quadro di Mondrian, con righe bianche e riquadri rossi, blu e gialli: avrete un titanide. Era uno spaventevole quadro vivente, dalla cima degli occhi alla punta degli zoccoli, e correva come se avesse il diavolo alle calcagna.

Si avviò scalpitando lungo la strada del mare, tenendo le braccia dietro di sé, come la figurina di metallo sul cofano delle Rolls-Royce, e con una nuvola di vapore che le usciva dalle ampie narici. Era inseguita da una piccola folla, che correva su leggeri cittipedi e che la minacciava con pugni e bastoni. Al di sopra dell’una e degli altri, un elicottero della polizia continuava a lanciare ordini che nessuno poteva sentire perché erano sommersi dal rumore delle sirene.

Chris’fer Minor fece qualche passo indietro, verso il fondo del sottopassaggio in cui si era andato a nascondere al primo fischio delle sirene. Si tirò su il bavero, rimpiangendo di non essersi cercato un altro nascondiglio. La titanide si dirigeva certamente verso il forte, perché non aveva altra scelta: le uniche vie di fuga erano il ponte, protetto da un’alta rete, e la Baia.

E invece si diresse verso la Baia. Galoppando sull’asfalto sbreccato del parcheggio, giunse fino alla catena che segnalava la fine della terrazza, e la scavalcò con un balzo. Il salto fu di dimensione omerica. La titanide era bellissima nell’aria, e oltrepassò con leggerezza gli scogli e l’acqua bassa e schiumosa. E altrettanto enorme fu lo spruzzo. Rimasero a galla soltanto la testa e le spalle, ma poi emerse anche parte del torso, e a Chris’fer parve semplicemente di vedere una persona umana immersa nell’acqua fino alla cintola.

La folla, però, non si accontentò di così poco. Cominciò a staccare pezzi di asfalto e a gettarli contro l’aliena. Chris’fer si chiese che cosa aveva combinato. Quella folla non aveva la cupa allegria dei semplici adescatori di alieni. Era in collera per qualche offesa particolare.

I poliziotti sull’elicottero azionarono i proiettori a luce solare, che di solito venivano usati in caso di sommosse armate. I vestiti cominciarono a fumare, i capelli a strinarsi. In pochi istanti, sul parcheggio non rimase anima viva: quella che prima era una folla bestemmiava e rabbrividiva nelle fredde acque della Baia.

Chris’fer sentì avvicinarsi il battito delle pale. Non era la prima volta che assisteva a una scena simile, e anche se era curioso di conoscere il motivo di quel tumulto, non voleva passare in galera i giorni seguenti. Girò le spalle alla strada e uscì dal sottopassagio per entrare nel curioso edificio di mattoni.

Sbucò in un cortile di cemento a forma di trapezio: in fondo, scorse varie serie di scalini che portavano a tre ordini di ballatoi, coperti da una tettoia. Sul muro che dava sulla strada si scorgevano aperture quadrate, regolarmente distanziate, larghe circa mezzo metro. Non c’era molto di più; l’edificio era un guscio abbandonato, ma, se non altro, era un guscio pulito. Qua e là si scorgevano cavalletti di legno che reggevano insegne in antichi caratteri dorati, che indicavano come raggiungere le varie parti dell’edificio, e che, in caratteri microscopici, davano ragguagli storici e architettonici.

Nel bel mezzo del cortile s’innalzava un’asta da bandiera, di ottone, in cima a cui, mossa dal vento proveniente dal Golden Gate, sbatteva una bandiera raffigurante una ruota d’oro a sei raggi, in campo nero. Era impossibile, guardando la bandiera, evitare che lo sguardo scivolasse sull’imponente spettacolo del ponte, la cui campata pareva sospesa nell’aria senza alcun sostegno.

L’edificio era Fort Point, costruito nel diciannovesimo secolo per proteggere l’ingresso della Baia. Ormai, tutti i suoi cannoni se n’erano andati. Sarebbe stato un’insuperabile difesa contro un nemico venuto dal mare, ma non ne era mai venuto nessuno. Fort Point non aveva mai sparato un solo colpo di cannone.

Chissà se i suoi costruttori pensavano che l’edificio era destinato a durare per due secoli e mezzo, senza alcun cambiamento, dal giorno in cui era stato posato l’ultimo mattone? Forse se lo erano augurato, ma sarebbero rimasti senza parole per la paura, nel vedere con quanta insolenza il ponte color arancio scavalcava il loro mastodonte di mattoni.

Quel ponte, a dire il vero, non si era comportato altrettanto bene. Dopo il terremoto del ’45 che l’aveva danneggiato, c’erano voluti quindici anni per costruire tra i piloni, rimasti intatti, una nuova strada per le automobili.

Chris’fer trasse un profondo respiro e s’infilò le mani in tasca. Aveva cercato di dimenticare il motivo che lo aveva spinto laggiù, perché aveva troppa paura di ricevere un rifiuto. Ma doveva decidersi. Una delle insegne gli mostrava la strada da seguire. Diceva:

AMBASCIATA DI GEA
L’AMBASCIATA È:
APERTA

La parola «aperta» era scritta su un pezzo di cartone appeso a un chiodo.

Seguì la direzione indicata dalla freccia: prima trovò una porta, poi percorse un corridoio su cui si aprivano varie stanze vuote, anch’esse di mattoni come l’intero edificio. Nell’Ambasciata di Gea tutto l’arredamento era costituito da una scrivania metallica e da un mucchio di balle di fieno accatastate contro una parete. Chris’fer entrò, e solo dopo essere entrato si accorse che dietro la scrivania c’era una titanide, sdraiata sul pavimento.

Sul torso, identico a un torso umano, l’aliena portava un’uniforme da operetta, tutta bottoni, spalline e galloni di ottone. Il corpo, che invece era perfettamente equino, era di quel colore dorato chiaro che nell’Ovest americano viene definito palomino, e così pure le mani e i polsi, che si vedevano al fondo delle maniche. A quanto pareva, stava in quel momento dormendo, e russava come una segheria. Sotto il braccio si scorgeva un kepi con una grande treccia dorata, di foggia militare, impennacchiato da una lunga piuma bianca; sul pezzo di gola che era visibile, la pelle era color palomino scuro. All’interno del cappello si scorgeva una bottiglia di liquore, e una seconda bottiglia era ferma sul pavimento, accanto alla zampa posteriore sinistra.

— C’è qualcuno? — La voce che pronunciò queste parole giungeva da una porta su cui era scritto Sua Eccellenza, Dulcinea (Trio Ipomixolidio) Cantata. — Tirarsi, fa’ entrare, fa’ entrare… — Uno starnuto poderoso, seguito da un’altrettanto poderosa soffiata di naso.

Chris’fer si avvicinò alla porta, la aprì, e, con leggera titubanza, infilò la testa nella fessura. Scorse un’altra titanide, seduta alla scrivania.

— La vostra segretaria… ehm… si deve essere addormentata.

La titanide si soffiò di nuovo il naso. — La mia segretaria è un segretario — disse l’Ambasciatore Cantata. — E se dorme, non c’è niente di strano. Ormai è talmente schizzato fuori dalla ruota, che non si ricorda neppure più se gira. — «Schizzare fuori dalla ruota» si stava diffondendo, come eufemismo, al posto di «alzare il gomito», «cascar giù dal carretto» e altri che indicavano tradizionalmente l’alcolismo. I titanidi che abitavano sulla Terra erano dei noti ubriaconi. E non amavano solo l’alcool, che già bevevano su Gea, ma anche il pulque di agave. Quel succo fermentato e distillato era talmente amato dai titanidi, che il Messico era una delle poche nazioni della Terra che riuscisse a esportare su Gea.

— Entrate — disse l’ambasciatore. — Prendete una sedia, e accomodatevi. Arrivo tra un minuto, perché prima voglio sapere dov’è Tzigano. — Fece per alzarsi.

— Se vi riferite a una titanide con la pelle che sembra una coperta, ha fatto un tuffo nella Baia.