La Prima Banda non aveva mai saputo cosa fossero le uniformi. E neppure cosa fossero i direttori d’orchestra. Le prime le avrebbero dato fastidio, dei secondi non aveva bisogno. Quando si trattava di musica di gruppo, composta per essere eseguita come era scritta, l’unica cosa che occorresse a un titanide era un metronomo. Il resto era già tutto sulla carta, e veniva eseguito esattamente come scritto, perfetto fin dalla prima volta. I titanidi non avevano bisogno di prove d’orchestra. Si costruivano da soli gli strumenti; dopo pochi minuti di esercizio, erano capaci di suonare qualsiasi strumento a fiato o ad arco, percussione o tastiera che incontravano, e gli strumenti da loro costruiti non erano quasi mai uguali.
Quella musica riuscì a commuovere Robin. Fu un risultato notevole, anche se la banda non poteva certo rendersene conto; Robin non aveva mai amato la musica di marcia, poiché la associava alle militaristiche esibizioni dei penisti, ai soldati e all’aggressività. Ora i titanidi le fecero capire che era anche esuberanza, e pura, sfacciata vitalità. Si strofinò i gomiti dove si era appoggiata alla roccia e si sporse in avanti, attenta a ogni nota.
Quel festival era un tipo di celebrazione che lei poteva capire. Nell’aria c’era una promesa, una vibrante eccitazione che aveva un piacevole sapore. L’aveva già captata ancor prima di giungere alla nube di polvere che contrassegnava la presenza delle colonne di titanidi in marcia verso il Festival, l’aveva avvertita anche se era ancora sconvolta dalla caduta, dall’incontro con l’angelo, dal lungo periodo in cui era rimasta inerme sulla riva di Ofione. Quando era giunta alla colonna che si recava al Festival, tutti le avevano dato il benvenuto, senza riserve. Chissà come, tutti sapevano che lei era un pellegrino, anche se la stessa Robin non era ancora certa di rientrare nella categoria. Comunque i titanidi l’avevano coperta di doni, di cibo, bevande, canti e fiori. Se l’erano presa in groppa, dove aveva dovuto farsi posto in mezzo a zaini e sacchi di cibo, e l’avevano fatta salire sui loro carri, che cigolavano e dondolavano sotto carichi enormi. Si era chiesta quale mai, nel nome della Grande Madre, potesse essere quel carico, che appesantiva a quel modo dei carri che giungevano ad avere fino a dodici ruote, e che erano tirati da squadre di titanidi composte di un numero di individui che poteva andare da due a venti.
Ora, osservando il cratere di Grandioso che si stendeva sotto di lei, le parve di capirlo. Buona parte del carico doveva essere costituito di costumi fatti di gemme. Anche quando erano nudi, i titanidi cercavano di rendersi appariscenti come caleidoscopi al neon, e questo, per un titanide, non era mai abbastanza. Anche in città, senza che ci fosse una particolare occasione, riuscivano sempre a mettersi addosso almeno un chilo di pendagli, collanine, braccialetti e campanellini vari. Dove avevano la pelle nuda, la dipingevano; dove avevano del pelo, lo tingevano, facevano treccioline, lo decoloravano. Si foravano non solo le orecchie, che erano più lunghe di quelle dei terrestri, ma anche le narici, i capezzoli, le grandi labbra e il prepuzio, e ci infilavano qualcosa che luccicasse o che brillasse. Si foravano gli zoccoli, che erano durissimi e rosso-trasparenti come rubini, e inchiodavano in essi gemme di colori contrastanti con lo sfondo. Era raro vedere un titanide non adorno di qualche fiore appena colto: lo portavano infilato nei capelli o dietro le orecchie.
Ma, a quanto pareva, quello che Robin aveva visto fino a quel momento non era niente. Perché in occasione del Festival Rosso i titanidi gettavano davvero al vento ogni ritegno e finalmente inalberavano i loro veri, sfarzosi ornamenti.
La musica raggiunse un acme di pulsazione e poi svanì, anche se continuò a echeggiare sulla roccia. A Robin pareva ingiusto lasciar morire una cosa viva come i suoni che aveva udito fino a quel momento, e infatti non li lasciarono morire. La banda attaccò Bandiera nazionale di E.E. Bagley. Da quel momento in poi, la musica non si interruppe più.
Ma, durante la brevissima pausa, Robin vide che qualcuno stava salendo fino a lei. Provò fastidio per quella che si annunciava come un’imminente interruzione, perché certo avrebbe dovuto scambiare qualche parola con la nuova venuta, che indossava camicia e calzoni verdi e stivali di cuoio consumati, mentre era salita lassù per ascoltare coscienziosamente le esecuzioni. La donna scelse quel momento per guardarla sorridendo. Il gesto pareva chiedere: "Posso unirmi a te?" e Robin annuì.
Certo, quella donna aveva una notevole agilità. Si arrampicò sulla roccia quasi senza usare le mani, mentre Robin, quando era salita, aveva impiegato quasi dieci minuti.
— Salve — disse, mettendosi a sedere accanto a Robin, con le gambe all’esterno della cengia. — Spero di non disturbare.
— Va benissimo. — Robin guardava la banda.
— In realtà, non marciano affatto — disse la donna. — La musica li agita troppo, e non riuscirebbero a tenere il passo. Se Sousa li vedesse, si metterebbe a urlare per la disperazione.
— Chi?
La donna rise. — Non farti mai sentire da un titanide. John Philip Sousa, il sesso e l’alcool sono ai primi posti della loro hit parade. E ti confesso che lo fanno piacere perfino a me, quando lo suonano come adesso.
Robin non sarebbe stata in grado di riconoscere una vera banda musicale in marcia neppure se l’avesse avuta sotto gli occhi, e la cosa le importava poco. I salti e le danze dei titanidi le andavano benissimo. Sousa doveva essere l’uomo che aveva scritto la marcia, ma anche questo aveva poca importanza. La donna però aveva detto che la musica la colpiva emotivamente, anche se lei non lo voleva, e ricordava che la stessa cosa era successa anche a lei. Voltò la testa verso la nuova venuta, per studiarla con attenzione.
La donna non era molto più alta di lei, e questo era una gradita novità. Da quando era arrivata su Gea, Robin aveva già visto troppi giganti. Vista di profilo, pareva serena e tranquilla, ma tutto il suo portamento smentiva quella sua strana aria innocente. Poteva avere solo pochi anni più di lei, ma Robin aveva l’impressione che la realtà fosse assai diversa. Il colore leggermente scuro della carnagione doveva essere frutto dell’abbronzatura. Adesso che era seduta, l’unica parte del corpo che muoveva erano gli occhi, cui non sfuggiva alcun particolare. Se pareva rilassata e senza nerbo, era solo un’illusione.
Si lasciò esaminare da Robin per un ragionevole periodo di tempo; poi mosse leggermente la testa e rivolse tutta l’attenzione su di lei. Gli occhi sorrisero prima delle labbra, ma quando queste si schiusero, Robin scorse una fila di denti bianchi e regolari. La donna le porse la mano, e Robin gliela strinse.
— Sono Gaby Plauget — disse.
— Che il sacro flusso ci… — Robin sgranò gli occhi.
— Non dirmi che la Congrega si ricorda ancora di me. Davvero? — Il sorriso si allargò, e strinse ancor di più la mano di Robin. — Tu devi essere Robin dalle Nove Dita. È tutto il giorno che ti cerco.
12
La sposa prescelta
Quando ne venne fuori, Chris era nel bel mezzo di una danza. Funzionando per automatismi, il suo corpo continuò a muoversi come si era mosso fino a quel momento, ma in pochi secondi Chris si fermò, con il risultato di essere violentemente spintonato alle spalle da un grosso titanide azzurro. Sulla faccia, Chris aveva ancora un largo sorriso, e si affrettò a ritornare serio.