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L’ambasciatore, che fino a quel momento aveva sollevato soltanto i quarti posteriori, e teneva ancora le mani appoggiate sulla scrivania, s’immobilizzò. Lentamente, riabbassò il posteriore.

— In tutto l’Ovest americano c’è un solo titanide con la pelle «che sembra una coperta», ed è un maschio che si chiama Tzigano. — Fissò Chris’fer, socchiudendo gli occhi. — Si è trattato di un tuffo ricreativo, oppure aveva ragioni più impellenti?

— Direi che si è accorto improvvisamente di dover entrare in acqua. C’erano cinquanta persone che gli correvano dietro.

L’ambasciatore fece una smorfia. — Sarà stato uno dei suoi soliti approcci. Da quando è stato con gli umani, non ne ha mai abbastanza. Accomodatevi, devo chiarire la cosa con la polizia. — Prese un vecchio telefono audio e disse che voleva parlare con il municipio. Chris’fer prese l’unica sedia della stanza, la portò accanto alla scrivania, e si mise a sedere. Mentre la titanide parlava, si guardò attorno.

Era un ufficio molto grande, come richiesto dalla mole dei titanidi. C’erano vari soprammobili artistici del diciannovesimo e ventesimo secolo, ma poco mobilio. In un angolo c’era una pompa per l’acqua, con una lunga leva, imbullonata al pavimento, e in centro alla stanza pendeva dal soffitto una lampada a incandescenza, di cui si vedeva il bulbo, avvitata in un portalampade Tiffany di vetro e piombo. Accanto all’unica finestra della stanza si scorgeva una stufa a legna, con lunghe gambe metalliche. Sulle pareti, quadri e poster: Picasso, Warhol, J G Minton e una targhetta nera, con una scritta arancione: «Un giorno dovrò decidermi a ORGANIZZARMI!». Dietro la scrivania, due ritratti e una foto: Johann Sebastian Bach, John Philip Sousa e Gea fotografata dallo spazio. Sulla scrivania, un cesto di argento pieno di limoni.

Gran parte del pavimento era coperta da un sottile strato di paglia, e in un angolo se ne scorgevano alcune balle. L’ambasciatore Cantata riagganciò il telefono e prese una bottiglia di tequila, con l’altra mano afferrò un limone e se lo cacciò in bocca; masticò il limone, bevve mezza bottiglia. Guardò Chris’fer con aria strana.

— Non avete con voi del sale, vero?

Chris’fer scosse la testa.

— Peccato. Volete bere? Oppure, un limone? Devo avere un coltello… — Cominciò a frugare nei cassetti, ma poi smise di fronte all’educato rifiuto di Chris’fer.

— Mi era sembrata una femmina — disse Chris’fer.

— Eh? Tzigano, volete dire. Sì, è uno sbaglio che fanno tutti… vi siete lasciato ingannare dal seno; ciascuno di noi lo possiede. Ma Tzigano è un maschio. Il sesso è determinato dagli organi frontali. Quelli tra le gambe anteriori. Da lontano, è difficile riconoscere quelli di Tzigano, sotto quel disegno a quadri. A proposito, io sono una femmina, e potete chiamarmi Dulcinea. Voi come vi chiamate, e cosa posso fare per voi?

Lui raddrizzò leggermente la schiena. — Mi chiamo Chris’fer Minor, e mi serve un visto. Vorrei vedere Gea.

La titanide aveva cominciato a scrivere qualcosa su un modulo. A questo punto, alzò gli occhi e mise il modulo da una parte.

— Vendiamo i visti in tutti i grandi aeroporti — disse. — Non c’era bisogno di venire da me. Basta prendere i soldi e infilarli nella macchina distributrice.

— No — disse lui, con la voce che tremava leggermente. — Voglio vedere Gea di persona. Ho bisogno di farlo. È la mia ultima possibilità.

2

Ubi Major…

— Allora, volete un miracolo — disse la titanide, con impeccabile accento irlandese. — Volete recarvi in cima alla montagna e chiedere a Gea di realizzare il vostro grande desiderio. Volete farle perdere del tempo prezioso per risolvere il problema che a voi pare tanto importante.

— Qualcosa del genere. — S’interruppe, mordendosi il labbro inferiore. — Proprio così, suppongo.

— Lasciatemi indovinare. Un problema medico. Un problema di vita e di morte.

— Medico. Ma non di vita e di morte. Vedete, si tratta di…

— No, aspettate. — Sollevò le mani, con le palme rivolte verso di lui. Non intendeva concedergli il visto, si disse Chris’fer.

— Riempiamo il modulo, prima di procedere. — Cominciò dalla cima del foglio, scrivendo la data del giorno, e poi chiese, con una smorfia: — Come si scrive, il vostro nome? Con l’apostrofo?

Nei dieci minuti seguenti, Chris’fer le diede le solite informazioni che si davano in qualsiasi ufficio aperto al pubblico: numero di ONU-IDENTITÀ, nome del coniuge, età, sesso… («WA3874-456-11093, scapolo, ventinove, maschio eterosex…»). A partire dai sei anni di età, ogni cittadino era in grado di recitarlo da addormentato.

— Motivo della visita a Gea? — chiese la titanide. Chris’fer appoggiò le dita di una mano a quelle dell’altra, coprendosi parzialmente la faccia.

— Ho questa malattia. È… difficile da descrivere. È una malattia ghiandolare o neurologica, non lo hanno capito bene. Finora c’è solo un centinaio di casi, e la chiamano sindrome 2096 barra 15. Mi succede di perdere contatto con la realtà. A volte provo una forte paura. Altre volte entro in un mondo allucinatorio e non sono più padrone di me stesso. In seguito, non ricordo più niente. Ho delle allucinazioni, parlo in lingue straniere, e il mio potenziale di Rhine cambia bruscamente. Divento fortunatissimo, lo crediate o no. Un medico diceva che devo ringraziare questo potere paranormale se finora sono riuscito a evitare guai grossi, come uccidere una persona o cercare di volare buttandomi giù dal tetto.

La titanide sbuffò. — Siete sicuro di voler proprio guarire? Molti di noi saprebbero come utilizzarlo, quel po’ di fortuna in più.

— Non c’è niente di divertente, almeno per me. Non c’è nessuna medicina che riesca a fermarlo. Posso soltanto prendere dei tranquillanti in previsione dell’attacco. Da anni mi sottopongo a tutti gli esami psicologici che esistono, e la risposta è che si tratta di un problema medico. Non è causato da traumi del mio passato, e non è neppure una fuga da un problema del momento. Altrimenti, tutto sarebbe risolto. Possono mettere a posto tutto, se si tratta di faccende psicologiche. Gea è la mia ultima speranza. Se Gea mi rifiuta, dovrò finire in un ospedale per il resto della vita. — Senza accorgersene, aveva stretto ì pugni e se li era portati al mento. Riaprì le mani.

L’ambasciatrice lo fissò con occhi grandi, impenetrabili, e poi tornò a guardare il modulo che stava compilando. Chris’fer la osservò. Nello spazio dove c’era scritto: «Motivo della richiesta», la titanide segnò: «Malato». Poi fissò quella parola, aggrottando la fronte e, dopo averla cancellata con un frego, scrisse: «Pazzo».

Chris’fer sentì che le orecchie gli bruciavano. Stava per protestare, ma lei lo precedette con un’altra domanda.

— Che colore preferite?

— Azzurro. No, verde… c’è davvero scritto?

Lei girò leggermente il modulo, per fargli vedere che c’era davvero scritto.

— Allora, decidete per il verde?

Incapace di fare obiezioni, lui annuì lentamente con la testa.

— Età a cui avete perso la verginità.

— Quattordici.

— Come si chiamava lui o lei, e di che colore aveva gli occhi?

— Lyshia. Azzurri.

— Avete avuto ulteriori rapporti sessuali con lui o lei?

— No.

— Chi è, secondo voi, il più grande musicista di ieri e di oggi?

Chris’fer cominciava a irritarsi. In cuor suo, Rea Pashkorian doveva essere la migliore; lui si era comprato tutti i suoi nastri.

— John Philip Sousa.

Lei sorrise senza alzare la testa, e Chris’fer non riuscì a capirne il motivo. Si era aspettato un invito a comportarsi seriamente, o a non cercare di influenzare l’interrogante, ma pareva che la titanide si prestasse al gioco. Con un sospiro, aspettò le altre domande.

Non avevano nessun collegamento con il visto da lui richiesto. Ogni volta, quando già gli pareva di scorgere una sorta di filo conduttore tra le domande, il tipo di domanda cambiava. Alcune domande riguardavano problemi morali, altre parevano formulate a caso. Cercò di rimanere serio, perché non sapeva fino a che punto fossero importanti, quelle domande, per il suo visto. Cominciò a sudare, anche se nella stanza faceva freddo. Non c’era modo di capire quali fossero le risposte giuste, e si limitò a rispondere onestamente. Aveva sentito dire che i titanidi erano abilissimi nello scoprire le menzogne degli umani.