Gea tendeva ad attirare i giovani avventurosi. Arrivavano uomini e donne che erano stanchi della Terra, dove tutto era sempre uguale. Spesso arrivavano dopo avere percorso un giro turistico degli habitat umani del Sistema Solare, dove tutto era ancora uguale, ma stava sotto cupole pressurizzate. Gea offriva condizioni climatiche simili a quelle terrestri. Questo ti liberava delle irreggimentazioni sempre presenti nei pianeti più ostili, e ti dava quello spazio personale che sulla Terra non trovavi più.
Imparò molte cose sui titani in generale, e in particolare sulle figlie di Gea, situate nell’orbita di Urano, che permettevano l’accesso soltanto alle commissioni scientifiche accreditate e parlavano con degnazione di Gea, il Titano Pazzo. Studiò la struttura fisica di Gea e le carte della sua superficie interna. Era una ruota cava, che girava intorno al proprio mozzo, e che aveva sei grandi raggi, anch’essi cavi. Anche agli occhi degli umani cresciuti nelle colonie spaziali lagrangiane, le sue dimensioni sfidavano l’immaginazione. Aveva un raggio di 650 chilometri, una circonferenza di 4000. Lo spazio abitabile posto sulla circonferenza era a forma di camera d’aria, era largo 25 chilometri e alto 200. Tra un raggio e l’altro c’era uno specchio piano, inclinato, che defletteva i raggi del sole e li indirizzava verso una serie di finestre-lucernari, poste sulla parte alta della ruota: a causa della loro presenza, certi settori della circonferenza erano sempre illuminati, mentre le aree sotto i raggi erano sempre al buio. L’interno di Gea era abitabile in ogni sua parte; perfino i raggi ospitavano forme viventi, che si abbarbicavano alla loro superficie ricurva, alta 400 chilometri. Le carte geografiche di Gea erano scomode da consultare, perché la loro dimensione da est a ovest era sedici volte più lunga di quella da nord a sud. Per studiarle bene, occorreva incollare insieme i bordi, fare un anello, mettere la cartima in piedi, e poi sedersi nel centro.
Ma non rimpianse il tempo trascorso a studiare quelle cartine. Gea era pressoché invisibile dallo spazio. Anche se tutti i viaggiatori si affollarono ai boccaporti per vedere qualcosa, quando i tentacoli d’ormeggio di Gea afferrarono la nave, Chris riuscì a vedere ben poco. A eccezione degli specchi riflettenti, la superficie esterna di Gea era completamente nera, per meglio assorbire l’energia solare disponibile.
Aveva fatto il suo dovere, e non si aspettava sorprese. E in effetti ne ebbe soltanto una, ma fu disastrosa.
Come previsto, il suo gruppo fu unito agli altri turisti giunti quello stesso giorno, e li avviarono tutti al ciclo di quarantotto ore di quarantena e di decontaminazione. Quelle procedure erano uno dei motivi che impedivano a Gea di essere apprezzata dai ricchi e dagli elegantoni. Le procedure erano un incrocio tra l’ospedale, il campo profughi e Auschwitz. Agenti della quarantena, umani e in uniforme, dissero a tutti di spogliarsi e di consegnare gli oggetti personali. In questi erano compresi anche i medicinali di Chris. Protestò, ma ebbe solo dei decisi rifiuti. Non si facevano eccezioni in nessun caso, e se non voleva consegnare le sue pillole, poteva ritornarsene subito sulla Terra.
La decontaminazione era una faccenda seria, e veniva portata avanti con un’efficienza tale da togliere a Chris e ai suoi malcapitati compagni ogni scintilla di umanità. Corpi nudi, di uomini e di donne ammassati senza distinzione, venivano fatti salire su nastri convogliatori che li portavano da una stazione all’altra. Erano lavati e irradiati. C’erano da trangugiare diuretici ed emetici, c’erano irrigazioni e clistere da sopportare. Dopo un periodo di attesa, l’intera procedura veniva poi ripetuta dall’inizio. Il personale non faceva alcuna concessione all’intimità. Le visite si svolgevano in grandi stanze bianche con decine di lettini, affollate di persone nude e scocciate. Tutti dormivano in una camerata con delle brandine, e mangiavano cibi insipidi preconfezionati, serviti su vassoi metallici.
Chris non si sentiva mai a proprio agio quando era nudo, neppure se erano tutti uomini. Aveva qualcosa da nascondere. Anche se non era una cosa che si potesse vedere sul corpo, aveva l’irrazionale timore che, una volta toltagli la sua corazza di abiti, la sua diversità divenisse visibile a tutti. Perciò, non partecipava mai a quelle attività per le quali la nudità era di prammatica, e di conseguenza diveniva davvero visibile: in un mare di epidermidi nere, brune e abbronzate, soltanto la sua era pallida come il latte.
L’attacco giunse subito, fin dal primo giorno. I farmaci delle pillole che gli avevano sottratto non c’entravano per niente, perché senza dubbio li aveva ancora nel sangue. Quello che gli avevano tolto era l’effetto placebo, l’autosuggestione. Anche se la sua malattia non era di origine mentale, ormai era divenuta estremamente più complicata di una semplice malattia psicologica. Lui entrava in una crisi ansiosa perché si preoccupava troppo degli aspetti farmacologici del problema, e il guaio stava nel fatto che gli attacchi di ansia potevano scatenare quelli di epilessia. Quando si accorse che aveva le mani e il dorso del collo sudati, capì che la crisi era imminente.
Presto cominciò ad avere disturbi alla vista, e un’acuta sensibilità ai suoni. Di minuto in minuto doveva dirsi che tutto era a posto, che non aveva un attacco cardiaco, che la gente non rideva di lui, che non aveva un tumore al cervello. Sentiva i piedi come due oggetti estranei, pallidi e freddi. Era tutta una finzione, e lui doveva recitare la sua parte, fingere di essere normale, mentre tutti sapevano che non lo era. In fondo, la cosa aveva anche un suo lato buffo, e lui finse di ridere. Poi finse di piangere, ridendo tra sé e sé, sapendo di poter smettere di piangere in qualsiasi momento, finché un uomo non gli toccò la spalla, e Chris gli diede un pugno sul naso.
Dopo averlo fatto, si sentì molto meglio. Rise dell’uomo che aveva colpito, e che cercava di rimettersi in piedi. Erano nella stanza delle docce, e gli venne in mente, con un certo disappunto, che passavano la maggior parte del tempo in quello stanzone. Ma il disappunto gli passò subito. L’uomo che era finito a terra gridava qualcosa, ma Chris non gli badò. Stava avendo un’erezione, e badava soltanto a quello. Pensava che era davvero una cosa simpatica, ed era certo che tutte quelle donne nude fossero d’accordo con lui. Dietro di lui c’era una pozzanghera, e, quando si voltò, Chris vide che l’uomo da lui colpito era di nuovo caduto a terra. Quello sciocco aveva cercato di colpirlo alle spalle, ed era scivolato sulle mattonelle bagnate. Ridicolo.
Adesso, Chris aveva voglia di scopare: la voglia e basta, senza un oggetto definito. Non era certo un’ossessione. Avrebbe potuto facilmente cambiare idea, ma per il momento la cosa gli pareva divertente.
— Chi vuole scopare? — gridò. Molti di coloro che erano sotto la doccia si voltarono a guardarlo. Chris allargò le braccia, per rendere partecipi tutti di quella delizia. Qualcuno rise. Gli altri guardarono da un’altra parte. Lui non se ne preoccupò.
Poi gli cadde l’occhio su una donna grande, bionda. Se ne innamorò all’istante, e la amò tutta: dai capelli lunghi e umidi appiccicati alla schiena, giù fino all’elegante linea dei polpacci. Si recò da lei e le spinse contro il fianco la sua offerta amorosa. Lei abbassò gli occhi, poi lo guardò in faccia, vide che rideva, gli diede uno schiaffone con la mano insaponata.
Chris le appoggiò la mano sulla faccia e spinse con forza all’indietro. La donna toccò terra, e si udì il tonfo delle natiche, il suono secco dei denti che battevano tra loro. Era troppo sorpresa dall’accaduto per accorgersi del calcio che Chris si preparava a darle, ma il calcio non arrivò mai a segno, perché un uomo afferrò Chris per il braccio e lo fece girare su se stesso. Ma tutti e due scivolarono sulle piastrelle bagnate e finirono a terra in una grande confusione. Ormai, a questo punto, accorrevano uomini da tutte le parti, per difendere la donna bionda. Grande indignazione di tutti.