Qualcosa le diceva di scappare. Forse, in un altro momento, avrebbe pensato che era una ben strana impressione, in un momento come quello. Sparò altri due colpi, e l’arma si inceppò. Tolse il caricatore vuoto e lo gettò a terra, dove fece un leggero rumore. Tornò a inghiottire a vuoto.
Ritornò la sensazione di prima, più forte che mai. Stranamente, le vennero le lacrime agli occhi. Maledizione, si aspettava di morire da un momento all’altro, e la cosa richiedeva più tempo del previsto.
Ma adesso aveva identificato bene quella sensazione misteriosa, e si sentiva rizzare i capelli sulla nuca. Non sapeva come, ma era certa che Gaby le diceva di muoversi.
Doveva essere uno dei trucchi di Gea. Fece qualche passo, titubante, e si sentì di nuovo bene. Ma quando si fermò, ritornò la sensazione di angoscia.
Perché aveva deciso di morire? Non aveva avuto quell’intenzione, all’inizio, a parte essere pronta a morire se fosse stato necessario. Aveva alcune cose da fare e, una volta fatte quelle, contava di fuggire. Era un trucco? Era Gea, che le metteva nella mente la voce di Gaby, per farle perdere tempo in attesa dell’arrivo della vendetta?
Ma poi decise di fidarsi della voce. Si diresse verso le cattedrali.
L’aria parve squarciarsi, e un fulmine colpì il punto dove era ferma fino a pochi istanti prima. Si mise a correre, e la collera di Gea colpì tutt’intorno a lei. La linea rossa, in alto, brillava più che mai.
Salta!
Obbedì, saltando alla sua sinistra, e un altro fulmine colpì il punto da lei occupato in precedenza.
Nella bassa gravità del mozzo era possibile raggiungere una notevole velocità, ma occorreva del tempo. I piedi non fornivano una trazione sufficiente per accelerare. Dovette cominciare con passi brevi, allungandoli gradualmente e toccando terra a vari metri di distanza dal punto precedente. E la velocità, una volta raggiunta, non si perdeva facilmente. Continuò a correre in quel modo, toccando raramente il terreno, mentre i fulmini la inseguivano.
La difficoltà sorgeva quando si voleva cambiare direzione. Quando decise di dirigersi a destra, dovette attendere il momento opportuno, e poi si chiese se avesse fatto bene. Sulla sua traiettoria di prima non cadde nessun fulmine.
Il pavimento prese a tremare. Alcune delle cattedrali, colpite dalle folgori e ora assalite anche dal basso, iniziavano a crollare. Demoni gotici di marmo stavano già precipitando, quando Cirocco raggiunse la retroguardia degli ex ospiti di Gea. I pinnacoli dondolavano per breve tempo al rallentatore, poi si sfaldavano, e una pioggia di mostruosi blocchi di pietra scendeva lentamente. Anche se lassù pesavano pochi chilogrammi, la loro velocità era tale, all’impatto, da schiacciare tutto ciò che colpivano.
Troppo tardi per cambiare rotta, vide che si stava dirigendo verso la ricostruita Notre Dame. Sollevò entrambi i piedi da terra, scivolando parallelamente alla superficie finché non si fu abbassata di mezzo metro, e poi diede una forte spinta con entrambe le gambe e si trovò lanciata in aria. Superò il tetto ad angolo acuto della cattedrale, scese lentamente a terra dall’altra parte, e rimbalzò di nuovo verso l’alto. Sotto di lei, i resti del Tè del Cappellaio Pazzo correvano in tutte le direzioni come un formicaio impazzito. Davanti a sé, scorse la bocca spalancata del Raggio di Rea. Non sarebbe riuscita a toccare ancora una volta il terreno; la velocità era sufficiente a portarla al di là del bordo. Alcuni degli ex ospiti di Gea avevano raggiunto l’orlo e guardavano il salto che non trovavano il coraggio di fare.
Cirocco infilò la mano nella tasca nascosta e ne trasse una piccola bombola di aria compressa. Voltandosi in modo da avere di fronte a sé la linea rossa, si appoggiò contro lo stomaco una delle estremità del cilindro e aprì la valvola posta dall’altra parte. La pressione dell’aria in uscita minacciò di far girare Cirocco su se stessa, ma lei riuscì a controllare la direzione del getto. Presto vide che acquistava velocità.
Quando la bombola si esaurì, la scagliò lontano da sé con tutta la sua forza, poi prese i due ultimi caricatori dell’automatica e scagliò anche quelli, e così fece con tutto quello che aveva in tasca. Stava per gettare via anche la pistola, ma ci ripensò. Bisognava renderla a Robin, se possibile. Invece, si sfilò la coperta, la appallottolò strettamente, e gettò via quella. Tutta la massa di reazione di cui poteva disporre era utile, nella sua fretta di allontanarsi.
Che stupida! pensò. Sarebbe stato meglio sparare le ultime cartucce, invece di gettarle via. Avrebbe potuto tenersi la coperta. Ma non le veniva più in mente niente, e inoltre, quando si guardò attorno, vide che la velocità aveva ormai poca importanza. Tutto l’interno cilindrico del Raggio di Rea crepitava di milioni di serpenti elettrici. Aveva sperato di giungere rapidamente fuori portata, ma ora doveva correre il rischio.
Sotto di sé, vide i suoi angeli di scorta, che roteavano lentamente, in attesa del suo arrivo, nel punto dove aveva detto loro di aspettarla. Mentre li osservava, uno di loro fu colpito e parve esplodere in una sventagliata di penne. Chiuse gli occhi, rattristata. Quando tornò a guardare, vide che gli altri cinque non si erano dispersi come aveva temuto. A una prima occhiata, pareva che si stessero allontanando, perché si vedevano soltanto i loro piedi e le loro ali che battevano vigorosamente, ma poi capì che si erano accorti, prima di lei, di un problema di recupero, e questo grazie al loro accuratissimo senso balistico. Pochi secondi più tardi, passò davanti a loro e si rallegrò di non avere sparato gli ultimi colpi. La sua velocità era già molto alta, e correva il rischio di distanziarli.
Si voltò dall’altra parte, volgendo la schiena al terreno. Era inutile guardare i fulmini, se non poteva fare niente per evitarli. Allargò le braccia per ridurre un poco la velocità, e gli angeli la rincorsero lungo il raggio illuminato dai lampi.
45
Fama e fortuna
Valiha aveva lasciato le stampelle per la versione titanide di una sedia a rotelle. Aveva due pneumatici di un metro di diametro e un telaio di legno poco più largo del suo corpo. Dalle ruote si innalzavano due sbarre verticali robuste a cui era legata un’imbracatura di tela con fori per infilarci le zampe anteriori e con cinghie per tenere fermo il tutto. A Chris pareva buffa, ma si ricredette nel constatarne la praticità. Avevano prescritto a Valiha di usarla ancora per qualche tempo. Le ossa si erano saldate, ma i guaritori titanidi preferivano andare sul sicuro, quando si trattava di fratture alle gambe.
Sulla carrozzella, Valiha era più veloce di Chris. L’unico problema era quello di cambiare direzione e, come tutte le carrozzelle, era un disastro sulle scale. Ora Valiha fissava la larga scala di legno ai margini dell’albero di Titantown; dopo avere fatto una smorfia, disse: — Penso di farcela.
— E io penso che faresti un ruzzolone — disse Chris. — Vado a prendere Robin. Serpentone, dov’è il cestino per il picnic?
Il bambino fece la faccia sorpresa, poi avvilita.
— Temo di essermene scordato.
— Allora, va’ a casa a prenderlo, e non fermarti per la strada.
— Certo. Arrivo subito. — Scomparve in una nuvola di polvere.
Chris raggiunse la scala. Per armonizzarsi con l’ambiente arboreo, aveva un tocco rustico: una serie di lettere costituite di bastoni legati insieme, che componevano la scritta TITANTOWN HOTEL. Salì al quarto piano e bussò alla porta numero tre. Robin disse che era aperto. Aprendo la porta, Chris vide che la ragazza era intenta a infilare mucchi di vestiti dentro una sacca da viaggio che non riusciva a contenerli.
— Non ho mai avuto l’istinto dell’accumulatrice — disse, asciugandosi la fronte con il dorso della mano. Quel giorno, in Iperione faceva caldo. — Pare che anche questo sia cambiato, in me. Adesso non so decidermi a buttare via niente. Perché non ti siedi? Aspetta, tolgo la roba da lì sopra… — Cominciò a spostare mucchietti di calzoni e di camicie, di produzione prevalentemente titanide, che erano appoggiati sul letto.