L’ascensore per il mozzo partiva una volta ogni ettoriv — equivalenti, le dissero, a cinque giorni della Congrega, ovvero quattro virgola due giorni terrestri — e Robin si trovò con trentasei ore libere. Una visita a Titantown poteva essere istruttiva, anche se Robin non capiva bene la funzione di quel luogo di confusione. Il concetto di svago che le era stato instillato nella Congrega non le permetteva di vedere quella sorta di baraonda come un posto dove divertirsi. Divertimento, per le streghe significava gare atletiche, banchetti, festeggiamenti, anche se sapevano apprezzare un tiro ben giocato e una storia menzognera ben raccontata.
Sua madre le aveva consegnato varie centinaia di crediti delle Nazioni Unite. Robin, che in quel momento si trovava sul balconcino di legno della sua camera d’albergo, posta sull’albero, lasciò correre lo sguardo sui colori vivaci della tendopoli, sulla baraonda, e provò il desiderio di recarsi laggiù. Se non fosse riuscita a far chiasso come gli altri, sarebbe stato meglio farsi cancellare il terzo Occhio.
Il gioco d’azzardo risultò una noia. Vinse qualcosa, perse qualcosa di più, ma non riuscì a dare importanza alla cosa. I soldi erano uno stupido gioco penista, e lei non cercò di capirlo. Sua madre le aveva detto che era il modo con cui si teneva conto del punteggio nella costante esibizione gerarchica della cultura penica. E Robin non aveva bisogno di sapere altro.
Decise però di adottare un atteggiamento possibilista, anche se molte cose non le parevano molto promettenti. Dapprima seguì le persone che davano l’impressione di divertirsi di più, e ne imitò le scelte. Per mezzo credito affittò l’uso di tre coltelli da scagliare contro un uomo che invitava la gente a colpirlo, davanti a un bersaglio di legno. Quell’uomo era bravissimo. Robin non riuscì a colpirlo, né ci riuscirono gli altri, in tutto il tempo che Robin restò laggiù a guardare.
Si accodò a una coppia ubriaca che entrava nel Fantastico Zoo del Professor Potter, dove si mostravano strani animali di Gea, chiusi in gabbia. A Robin, lo spettacolo parve affascinante, e non capì perché i due ubriachi, dopo una rapida occhiata, se ne andassero via, per cercare un posto, come disse il maschio, dove ci fosse più «movimento». Benissimo, anche lei avrebbe cercato il movimento.
In una tenda guardò un uomo che stuprava una donna su una sorta di piattaforma rialzata, e lo spettacolo le parve assai noioso. Sapeva già come andava a finire, e le contorsioni della coppia non aggiungevano molto interesse alla cosa. Poi fu la volta di due titanidi, e questa volta lo spettacolo valeva la pena di essere visto, anche se metteva in discussione tutte le definizioni note a Robin. Dapprima lei pensò che uno dei titanidi stuprasse l’altro, ma poi lo stupratore si tirò indietro, e venne penetrato dalla stuprata. Era logico, tutto questo? Se entrambi i sessi erano in grado di stuprare, si poteva ancora parlare di stupro? Naturalmente, questi dubbi valevano solo per i titanidi. Ciascuno di loro aveva doppi organi, maschile e femminile, nella parte posteriore, e nella parte anteriore un organo singolo: o maschile, o femminile. L’annunciatore presentò lo spettacolo come «istruttivo», e spiegò che i titanidi non avevano alcuna difficoltà a praticare in pubblico un accoppiamento posteriore, ma che l’amore con gli organi anteriori era riservato all’intimità. Insegnò a Robin un nuovo verbo: scopare.
Nel vedere il pene posteriore dei titanidi, Robin cominciò ad allarmarsi. Normalmente, era coperto dalle zampe di dietro, ma, quando compariva nella sua integrità, era davvero uno strumento terribile. Era esattamente uguale al modello umano, ma era lungo come il braccio di Robin, e due volte più spesso. Si chiese se sua madre non si fosse confusa, e non avesse attribuito ai maschi umani quello che invece apparteneva ai titanidi.
C’erano numerose altre attrazioni di carattere istruttivo e scientifico, e molte di esse si basavano sulla violenza. Questo non costituì affatto una sorpresa per Robin, che non si aspettava altro, da una società penista, e che a sua volta conosceva la violenza. In una piccola tenda, una donna dimostrava i poteri di qualche forma di super-yoga piantandosi spilli negli occhi, infilandosi uno sciabolone nella pancia fino a farlo uscire dall’altra parte, e poi amputandosi abilmente il braccio sinistro con bisturi e sega. Robin era certa che quella donna fosse o un robot o un ologramma, ma l’illusione era troppo perfetta per capirlo. Al successivo spettacolo, la donna era più in gamba di prima.
Prese un biglietto per assistere a una rappresentazione di Romeo e Giulietta interpretata da attori titanidi, ma le scappò continuamente da ridere, e dovette uscire prima della fine. Avrebbero fatto meglio a chiamarlo Capuleti e Montecchi del Quinto Cavalleggeri. Inoltre, il copione era stato clamorosamente manipolato. Secondo Robin, Shakespeare avrebbe potuto anche accettare i titanidi nei ruoli principali, ma certo la grande drammaturga si sarebbe rivoltata nella tomba, se avesse saputo che i revisionisti penisti avevano trasformato Romeo in un uomo.
Richiamata dal suono della musica, entrò in una tenda di medie dimensioni, vide due lunghe file di panche di legno, e si sedette con sollievo su quella più vicina. Dirimpetto a lei, c’era una fila di titanidi che cantava, sotto la direzione di un uomo che indossava un lungo vestito nero. Pareva un’attrazione come le altre, a parte l’assenza del botteghino dei biglietti. D’altronde, di qualsiasi cosa si trattasse, Robin era stanca e aveva voglia di sedersi.
Si sentì toccare gentilmente sulla spalla. Voltandosi, scorse un altro uomo vestito di nero. Dietro l’uomo c’era un titanide con occhiali dalla montatura di acciaio.
— Scusa, vorresti metterti questo, per piacere? — Le mostrò un lungo camicione bianco. Le sorrideva con aria amichevole, e così pure faceva il titanide.
— Perché? — domandò Robin.
— È la regola, qui dentro — spiegò l’uomo, in tono di scusa. — Noi riteniamo che sia poco decoroso scoprire il proprio corpo. — Solo allora, Robin notò che anche il titanide portava la camicia. Era il primo (o la prima) da lei visto che si coprisse il petto.
S’infilò il camicione, con un’alzata di spalle, disposta a soddisfare qualsiasi arzigogolata convinzione per il piacere di ascoltare la buona musica. — Comunque, che razza di posto è questo?
L’uomo si sedette accanto a lei e le rivolse un mesto sorriso.
— Hai ragione a domandarlo — disse, con un sospiro. — A volte, questo luogo mette alla prova la fede, anche quella dei più devoti. Noi siamo venuti a portare il Verbo agli altri pianeti. Anche i titanidi hanno l’anima, esattamente come gli uomini. Siamo qui da dodici anni, ormai. Le funzioni sono ben seguite, e abbiamo celebrato qualche matrimonio, qualche battesimo. — Con una leggera smorfia, sollevò lo sguardo sul gruppo di titanidi che cantava in fondo alla tenda. — Ma penso che anche dopo avere fatto tutto questo, il nostro gregge accorra qui soltanto per esercitarsi nel coro.
— Non è vero, fratello Daniel — disse il titanide, in inglese. — Io credo in Dio Padre creatore e padrone del cielo e della terra e nel suo figlio unigenito Gesù Cristo nostro signore…
— Cristiani! — esclamò Robin, con un grido strozzato. Balzò in piedi, facendo con una mano il segno protettivo delle due dita puntate, e sollevando con l’altra mano la testa di Nasu. Indietreggiò lentamente, con il cuore che le batteva a precipizio. Poi fuggì via di corsa, e non si fermò finché la chiesa non scomparve alle sue spalle, in mezzo all’aria polverosa.