Ma creava anche quelli che erano chiamati gli strumenti di Gea. Questi erano delle semplici estensioni di lei. Li usava per costruire le sue copie di cattedrali, scala 1:1, per comunicare con le piccole forme di vita, per fare, insomma, tutto quello che non riusciva a fare con la sua normale ecologia esistenziale. E presto lui, Chris, avrebbe incontrato uno di questi strumenti, che gli avrebbe detto di chiamarsi Gea. In realtà, Gea era tutt’intorno a lui, ma non poteva certo mettersi a parlare con i muri.
Chris guardò ancora bene la donna alta che lo accompagnava, con lunghi capelli neri. Era uno «strumento», oppure una vera donna?
— Di dove siete? — le domandò.
— Del Tennessee.
Gli edifici erano stati costruiti senza un piano preciso. Alcuni erano posti l’uno accanto all’altro, in una sorta di baraccopoli del cielo, altri erano alquanto intervallati. Data la disposizione a casaccio, c’erano strette stradine dove ci si aspettava una piazza, e viceversa. S’infilarono tra una copia di Chartres e una pagoda senza nome, poi sbucarono in un enorme piazzale pavimentato di marmo, che portava a Karnak.
L’autore del libro che Chris aveva letto ammetteva di non sapere perché Gea costruisse quelle repliche. E perché, dopo averlo fatto, le lasciasse al buio, dove nessuno poteva vederle. E a passare in mezzo a esse ci si sentiva come una formica perduta sul fondo polveroso della scatola dei balocchi di qualche bambino. Le costruzioni potevano essere l’equivalente dei segnapunti di un gioco del Monopoli per iper-miliardari.
— Quello è il mio favorito — disse a un tratto la donna.
— Quale?
— Quello — disse lei, puntando la lampada. — Statunitense.
Aveva un aspetto familiare, ma dopo avere visto tante costruzioni in così breve tempo, tutti i mucchi di pietra cominciavano ad assomigliarsi.
— A cosa servono? Non si riesce neppure a vederli.
— Oh — gli assicurò lei — Gea non ha bisogno di luce visibile. Uno dei miei bis-bisnonni ci ha lavorato. L’ho visto, a Washington.
— Non mi sembra di conoscerlo.
— Certo, adesso è a pezzi. Lo vogliono demolire.
— È per questo che siete venuta qui? Per studiare la grande architettura del passato?
Lei sorrise. — No, per costruirla. Sulla Terra, dove potete ancora fare questo genere di lavoro? Per costruire questi edifici, hanno lavorato per centinaia di anni. Anche qui, ne occorrono venti o trenta, e non ci sono di mezzo i sindacati, i regolamenti edilizi e le preoccupazioni economiche. Sulla Terra, costruivamo complessi ancora più grandi, ma se non li costruivamo in sei mesi, chiamavano un’altra persona. E alla fine della costruzione, l’edificio sembrava un mucchio di sterco caduto dal cielo. Qui, invece, lavoro sul Tabernacolo Mormone dello Zimbabwe.
— Sì, ma a cosa serve? Cosa vuol dire?
Lei lo fissò con commiserazione. — Se dovete fare questa domanda, vuol dire che non sareste in grado di capire la risposta.
Raggiunsero un’area di luce diffusa. Era impossibile capire da dove provenisse l’illuminazione, ma per la prima volta si riusciva a scorgere il «tetto» del mozzo, che aveva un raggio di curvatura molto più piccolo di quello della periferia, ma che distava da loro più di venti chilometri. Pareva un complicato cestino di vimini, e ogni «vimine» era un refolo di cavo, lungo un chilometro. Alla parete più vicina a loro era appesa una tela bianca, grande come la vela maestra di un brigantino. Stavano proiettando un film, che, oltre ad avere solo due dimensioni, era anche muto e in bianco e nero. Una pianola automatica posta accanto alla cabina di proiezione, forniva l’accompagnamento musicale.
Tra la cabina e lo schermo si stendeva un tappeto persiano che pareva misurare almeno un ettaro. Su cuscini e sofà erano sdraiati cinquanta-sessanta tra uomini e donne, che indossavano abiti larghi, sgargianti. Parte guardava il film, parte parlava, rideva, beveva. Una di quelle persone era Gea.
Non faceva molto onore alle sue fotografie.
Non esistevamo molte fotografie del particolare «strumento» che Gea amava presentare come se stessa. Nelle foto, la statura rimaneva indeterminata. Un conto era leggere che Gea era una donna di bassa statura, un altro vedersela davanti. Nessuno l’avrebbe notata, se l’avesse vista seduta su una panchina. Chris ne aveva viste migliaia, come lei, nelle periferie della Terra: piccole, sgraziate raccoglitrici di rottami.
La faccia dalle guance cascanti ricordava soprattutto una patata. Occhi scuri e lucidi, sopracciglia folte, pieghe di grasso. I capelli erano ricci, con venature grigie, e tagliati all’altezza delle spalle. Sulla Terra, Chris si era procurato una foto di Charles Laughton per vedere se gli assomigliava, come dicevano i suoi libri, e aveva constatato che i libri avevano ragione.
Gea rise con aria sardonica.
— So quello che pensi, figliolo. Faccio meno impressione di un maledettissimo cespuglio che brucia senza bruciare, vero? D’altronde, cosa credi che avesse in mente, Geova, quando è così comparso? Mettere una fifa boia a un superstizioso capraio ebreo, ecco cosa aveva in mente. Accomodati, figliolo. Prendi un cuscino, e raccontami tutto.
Era straordinariamente facile parlare con Gea. Ecco il lato positivo di quella scelta così poco ortodossa del suo Aspetto Divino: in un certo modo difficile da definire, andava d’accordo con l’immagine di Gea come Madre Terra. Davanti a lei, ci si poteva sentire tranquilli. Si poteva prendere quello che si aveva dentro, metterlo a nudo, con una fiducia che diventava sempre più grande. E Gea aveva quell’intuito che dovrebbero avere tutti i buoni terapeuti e tutti i buoni genitori. Ti ascoltava, certo, ma soprattutto ti faceva capire di averti ascoltato. Non ti dava necessariamente ragione, e il suo affetto non era privo di critiche. Chris non si sentiva particolarmente favorito, e non gli pareva neppure che il suo caso le importasse molto. Ma Gea si interessava di lui e del suo problema.
Si chiese se era solo una sensazione soggettiva, se proiettava su quella donnetta grassa tutte le sue speranze. Comunque, mentre faceva il suo racconto gli scappò anche qualche lacrima, e non sentì il bisogno di scusarsene.
Raramente alzò gli occhi su di lei. Fece correre lo sguardo dappertutto, su una faccia, su un bicchiere, un tappeto, senza fissare niente in particolare.
Infine, terminò il discorso che si era preparato. Su quel che poteva succedere da quel momento in poi, non c’erano testimonianze attendibili. La gente che era ritornata sulla Terra, guarita, si manteneva stranamente sul vago, quando si trattava di parlare dei colloqui con Gea e dei sei mesi che, in media, aveva passato al suo interno dopo i colloqui. Non ne parlava mai, nonostante le pressioni.
Gea guardò per qualche tempo lo schermo, bevve qualche sorso da un calice dal gambo lunghissimo.
— Perfetto — disse. — È pressappoco quello che mi ha detto Dulcinea. Ti ho visitato attentamente, so che cosa hai, e ti assicuro che è possibile una cura. Non soltanto per te, naturalmente, ma anche per…
— Scusatemi, ma come mi avete visitato?
— Non interrompere. Torniamo al nostro accordo. È uno scambio, e probabilmente non ti piacerà quello che ti chiederò. Dulcinea ti ha fatto una domanda, quando eravate ancora all’ambasciata, e tu non hai risposto. Mi chiedo se ci hai pensato sopra, dopo di allora, e se adesso sapresti rispondere.
Chris cercò di ricordare, e alla fine gli tornò in mente la domanda sui due bambini legati sul binario.
— Non significa molto — disse Gea, magnanima — ma è interessante. Ci sono due risposte, a quanto vedo. Una è per gli dèi, e l’altra per gli uomini. Non ci hai mai pensato?
— Sì, una volta.
— E qual è la tua opinione?
Con un sospiro, Chris decise di parlare onestamente. — Pare probabile che… cercando di liberarli tutti e due, morirei nel tentativo di liberare il secondo. Non so quale libererei per primo. Ma se cercassi di liberarne uno, poi dovrei cercare di liberare anche il secondo.