«Ma devi deciderti subito. Quell’uomo laggiù e altri settantadue sulla Terra aspettano te. Sono legati alle rotaie del treno. Tocca a te salvarli, e il tuo primo passo è quello di capire che forse non riuscirai neppure a salvare te stesso. Ma se morirai, almeno sarai morto nel tentativo.
«Che cosa decidi, allora? O ordini da bere, o ti togli dai piedi!»
8
L’aviatore
Robin aveva voglia di pestare i piedi per terra, ma si guardò bene dal farlo. Dodici anni di esilio nelle regioni a bassa gravità della Congrega le avevano insegnato a evitarlo. Ma emotivamente, nel suo cervello, li stava pestando con furore.
Una delle assistenti la accompagnava all’ascensore, ma Robin se la lasciò presto alle spalle. Rifece la strada tra i monumenti, come una formica in mezzo agli elefanti.
Ridicolo. Gea pensava di impressionarla? Se uno si lasciava impressionare dallo spreco, lei, allora, era addirittura sconvolta.
Cattedrali. Ballerini di tip-tap. Una «cosa» oscena e grassa che si spacciava per la Grande Madre, circondata da una manica di sicofanti. E a coronare il tutto?
Gli eroi.
Sbuffò con disprezzo, rivolta nella generica direzione di Notre Dame.
Per quale motivo, lei, Robin, doveva salvare ventisei estranei? Uno di loro era senza dubbio suo padre. Gea glielo aveva fatto notare espressamente, e lei l’aveva fissata a sua volta, senza capire. Parlare di paternità a Robin era come parlarle della risposta premi alla chiusura mensile della Borsa.
Non si dà niente per niente, aveva detto Gea. E, allora, quei ventisei in paziente attesa che Robin si incamminasse verso una morte orrenda, che cosa davano? Tutto il suo essere si ribellava contro quell’idea. Se anche uno solo dei malati fosse appartenuto alla Congrega, lei avrebbe mosso il Cielo e la Terra per salvarlo. Ma gli estranei?
Quel viaggio su Gea era stato una stupidaggine fin dall’inizio. Adesso non era il caso di sommare nuovi errori a quelli già fatti. Rimanere in quel penosissimo branco di leccastivali smidollati era assolutamente da escludere, e così pure accettare le condizioni di Gea. Se ne sarebbe ritornata a casa sua, per vivere come voleva la Grande Madre.
Giunse all’ascensore e schiacciò il pulsante di chiamata. Udì il suono di un campanello, e le porte si aprirono. Cattiva progettazione, pensò, nel vedere che non c’era un mancorrente a cui afferrarsi. Vide solo due pulsanti: uno con la scritta CIELO, e l’altro con la scritta GIÙ. Schiacciò il secondo, e sollevò le braccia per fare pressione contro il soffitto, nel caso che la discesa fosse troppo rapida. In quella posizione, mentre si aspettava che l’ascensore si muovesse verso il basso, non le parve per niente strano di sentire che i piedi si staccavano dal pavimento. Dovette passare un lungo istante, prima che si accorgesse che il soffitto rimaneva sempre alla stessa distanza. E che, anzi, si stava lentamente allontanando da lei. Si affrettò ad abbassare gli occhi.
Scorse i propri stivali. Seicento chilometri più in basso, scorse Nox, il Mare di Mezzanotte.
Il tempo parve fermarsi. Robin si sentì correre per le estremità un fiotto bruciante di adrenalina. Una serie di immagini le passò in fretta nella mente, piene di dettagli. L’aria aveva un buon sapore. Per un momento, si sentì fortissima, mentre cercava di afferrarsi a qualcosa, con mani e piedi che ormai le sembravano distanti. Poi quella forza si spezzò in mille frammenti, e la paura e la disperazione cercarono di impadronirsi di lei.
Quando cominciò a gridare, il fondo della cabina dell’ascensore le era arrivato all’altezza della cintura. Continuò a sprofondare, gridando e imprecando con rabbia. Le pareti dell’ascensore rimasero sempre irraggiungibili, e la cabina si allontanò sopra di lei e si ridusse a una scatola di luce sempre più piccola.
Robin si mise a fare dei calcoli, ma non perché sperasse di trovare una risposta che la riportasse nel mondo dei vivi. Molti chilometri al di sotto di lei, la aspettava solo la morte. Desiderava unicamente sapere quanti secondi le rimanevano. O minuti? O forse aveva ancora qualche ora da vivere?
In questo, poté avvantaggiarsi dell’insegnamento ricevuto nella Congrega. Conosceva il moto centrifugo, e quel tipo di problema le era familiare, mentre avrebbe avuto qualche difficoltà se si fosse trattato di un vero campo gravitazionale. Robin non era mai stata in campi gravitazionali degni di nota.
Cominciò con uno dei dati del problema, l’accelerazione in corrispondenza del mozzo, che era di un quarantesimo di gravità. Quando il pavimento dell’ascensore si era spalancato sotto di lei, era cominciata a cadere con la velocità di un quarto di metro al secondo. Ma l’accelerazione non sarebbe rimasta costante. Un corpo che si muove all’interno di un oggetto in rotazione non cade in direzione radiale, bensì ha l’impressione di muoversi in senso inverso a quello di rotazione. Vista dall’esterno, la sua traiettoria era una retta, ed era la ruota di Gea a muoversi sotto di lei. La sua accelerazione rispetto alla circonferenza di Gea sarebbe stata molto piccola, all’inizio. Solo dopo avere accumulato una forte componente laterale della velocità avrebbe avuto l’impressione di cadere rapidamente, e se ne sarebbe accorta dalla pressione dell’aria: come un forte vento che soffiava su di lei in direzione contraria a quella della rotazione.
Si guardò attorno, rapidamente. Il vento era già forte. Su una delle pareti verticali, poteva scorgere la cima degli alberi. Era la foresta orizzontale di Gea. Se Gea avesse ruotato nell’altro verso, Robin avrebbe urtato contro quella parete nel giro di pochi secondi, o di pochi minuti. Ma poiché Gea ruotava in modo da allontanarla da quella parete, le rimaneva ancora del tempo.
Poteva eseguire mentalmente alcuni calcoli semplificati, ma non sapeva la densità dell’aria di Gea. Aveva letto da qualche parte che era molto alta: circa due atmosfere in prossimità della circonferenza. Ma come scendeva la pressione quando si raggiungeva il mozzo? Poi pensò che anche lassù era perfettamente respirabile, e calcolò che ci fosse una pressione di un’atmosfera.
Stranamente, quei calcoli matematici riuscirono a calmarla un poco. Non si irritò neppure quando dovette rifarli, anche se era consapevole della loro inutilità. Intendeva fare quel calcolo perché desiderava conoscere con esattezza il momento della sua morte. Era importante morire con decoro. Afferrò il manico della borsa contenente Nasu e riprese i calcoli dall’inizio.
Giunse a una risposta che le pareva assurda, rifece il conto, e poi lo rifece una terza volta per conferma. Facendo la media, ottenne cinquantanove minuti all’urto. Dal calcolo ricavò anche la velocità al momento dell’impatto. Trecento chilometri orari.
Cadeva con la schiena rivolta nella direzione da cui soffiava il vento. Poiché la caduta la portava sia in direzione della circonferenza, sia in quella della parete opposta, il suo corpo non era in posizione verticale. Il mozzo non era più in direzione dei suoi piedi. La parete che si allontanava da lei formava un angolo con il suo corpo. Si guardò attorno.
Lo spettacolo era affascinante. Purtroppo, non era nelle migliori condizioni di spirito per apprezzarlo.
La Congrega, se l’avessero lasciata cadere dal punto da cui era partita lei, sarebbe stata come una scatola di latta precipitata in una ciminiera. Il raggio lungo cui stava cadendo, quello di Rea, era un tubo cavo che in fondo si allargava a campana, e la cui superficie interna era totalmente coperta di alberi che avrebbero fatto impallidire le più alte sequoie. Quegli alberi avevano le radici nella parete del raggio, e crescevano verso l’interno. Robin non riusciva più a distinguere le singole piante, neppure le più grandi, e tutt’intorno a lei la parete sembrava un mare di colore verde cupo. Il raggio era illuminato da doppie file verticali di oblò, ammesso che si potesse dare quel nome ad aperture che avevano almeno un chilometro di diametro.