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La titanide responsabile della persuasione eterica si voltò verso di lei e annuì.

— Dico di farla scoppiare, mia direttrice? — cantò Mondoro.

— Aspetta. E non chiamarmi così. Chiamami «capo». — Gaby studiò la superficie dell’acqua, fissando il punto da cui emergevano tre cavi. Fece correre lo sguardo lungo di essi, alla ricerca di qualche nodo che poteva portare a una rottura, e infine osservò anche la sua flotta improvvisata, sospesa sopra di loro. Dopo tutti quegli anni, era uno spettacolo che le incuteva ancora un timore reverenziale.

Erano i tre aerostati più grandi che fosse riuscita a radunare con un preavviso di pochi giorni. Si chiamavano Corazzata, Bombasto ed Esploratore. Ciascuno di loro era lungo più di mille metri, e ciascuno di loro era un vecchio amico di Gaby. Era difficile che gli aerostati più grandi volassero insieme in squadra, perché preferivano farsi accompagnare nei loro viaggi da un gruppetto di sette o otto esemplari più piccoli.

Ma adesso erano imbracati a quei cavi, e formavano un tiro a tre, quale raramente si poteva vedere su Gea. Le loro traslucide superfici caudali, grandi come un buon campo da football, battevano l’aria con pachidermica maestà. I loro corpi elissoidali, azzurri con riflessi di madreperla, sobbalzavano, scivolavano e stridevano l’uno sull’altro, scontrandosi come un gruppo di palloncini del luna park.

Mondoro sollevò il pollice.

— Fuoco — disse Gaby.

Mondoro si curvò verso un grosso seme, delle dimensioni di un melone, sistemato in mezzo a un intrico di rami e viticci che teneva tra le ginocchia. Gli parlò a bassa voce, e Gaby si volse a guardare Aglaia, impaziente.

Dopo qualche istante, Mondoro tossicchiò come per scusarsi, e Gaby la guardò aggrottando la fronte.

— È offeso con noi perché l’abbiamo tenuto al buio — cantò Mondoro.

Gaby sospirò a denti stretti e batté il piede per terra, rimpiangendo di non avere un normale trasmettitore.

— Allora, cantagli qualcosa sulla luce — disse Gaby. — Sei tu la specialista in persuasione. Dovresti sapere tu, come trattare quelle creature.

— Forse, con un inno al fuoco… — rifletté la titanide.

— Non me ne frega niente di quello che gli canti! — gridò Gaby, questa volta in inglese. — Fammi solo scoppiare quella maledetta roba! — E si voltò dall’altra parte, con un diavolo per capello.

La bomba era legata al tronco dell’albero titanico. Era stata collocata laggiù, con grave rischio, da angeli che erano volati nella pompa durante la fase diastolica, quando c’era aria al di sopra del torrente d’acqua che si precipitava all’interno della valvola. Gaby rimpianse di non aver potuto dare agli angeli una carica al plastico residuato dell’esercito. La «bomba» collocata dagli angeli era invece un grande pasticcio di frutti e piante di Gea. L’esplosivo era un mazzo di nitrotuberi sensibili come nitroglicerina. Il detonatore era costituito da varie parti: una pianta che emetteva scariche elettriche, e una seconda con un nocciolo di magnesio, il tutto collegato a un circuito di comando ottenuto prendendo una foglia a circuito integrato e grattando via, delicatamente, tutta la materia organica per mettere a nudo la piastrina di silicio interna, con i suoi microcircuiti. Il circuito era programmato per reagire agli impulsi di un seme radiofonico, la pianta più capricciosa di Gea. Erano trasmettitori radio che trasmettevano il messaggio soltanto se era cantato bene e se, a loro insindacabile giudizio, il messaggio da trasmettere era sufficientemente importante.

I titanidi erano maestri, nel canto. Il loro linguaggio era canto; per loro, la musica era importante come il cibo. Il sistema radiofonico basato su quei semi non aveva niente di strano per loro. Ma Gaby, che cantava male e che non era mai riuscita a interessare un seme alle sue canzoni, li odiava. Le sarebbero bastati un fiammifero e un paio di chilometri di miccia rapida, impermeabile. Sopra di lei, gli aerostati tendevano ancora i cavi, ma presto si sarebbero stancati. Non avevano molta resistenza. Un chilo sull’altro, erano tra le creature più deboli di Gea.

Quattro titanidi si erano radunati attorno al seme, e gli cantavano un complicato quartetto ben contrappuntato. Ogni poche battute, infilavano nel canto la serie di cinque note che metteva in funzione il detonatore. A un certo punto, il seme si ritenne soddisfatto e si unì al concertino. Si udì una bassa esplosione che fece tremolare l’intera Aglaia, e dalla cima della valvola di aspirazione si sollevò una nube di fumo nero. I cavi, che fino a un attimo prima erano tesi, si allentarono.

Gaby si alzò in punta di piedi, timorosa di scoprire che l’esplosione aveva soltanto rotto i cavi. Ma dall’apertura cominciarono a uscire schegge grandi come interi alberi d’alto fusto. Ci fu un forte «evviva» dei titanidi dietro di lei quando infine comparve il tronco dell’albero titanico, che dondolava come una balena colpita dal fiocinatore.

— Assicurati di essere ad almeno cinque o sei chilometri dalla valvola, quando lo fissi a terra — cantò Gaby a Clavier, il titanide che si occupava dello sgombero. — Passerà del tempo, prima che tutta quell’acqua sia pompata via, ma se lo lasci adesso al limite dell’acqua, in poche riv si troverà all’asciutto.

— Certo, Capo — le cantò Clavier.

Gaby rimase a controllare mentre la sua squadra si occupava delle attrezzature che si era fatta imprestare a Titantown, e Salterio andò a prendere gli effetti personali di Gaby. Aveva già lavorato in precedenza con quei titanidi, in altri lavori del genere. Conoscevano bene il loro mestiere. Forse non avevano bisogno di lei, ma non si sarebbero mai messi all’opera spontaneamente, tranne che per diretto ordine divino. Inoltre, non conoscevano gli aerostati come li conosceva Gaby.

Invece, Gaby non riceveva ordini da nessuno. Il suo lavoro veniva svolto in base a un contratto, pagamento anticipato. In un mondo dove ogni creatura aveva il proprio posto, anche lei aveva il suo.

Udì rumore di zoccoli, e si voltò a guardare. Salterio era di ritorno con i suoi bagagli. Non c’era molto; le cose di cui Gaby pensava di avere bisogno, o a cui era legata affettivamente, erano talmente poche da poter essere contenute in un piccolo sacco da montagna. Le cose a cui attribuiva maggiore valore erano la libertà e le amicizie. Salterio (Trio Lidio Diesis) Fanfara era una delle amicizie a lei più care. Lui e Gaby lavoravano insieme da dieci anni.

— Capo, ti chiama il telefono.

Gli altri titanidi drizzarono le orecchie, e perfino Salterio, che pure doveva essere abituato a quel genere di cose, pareva leggermente intimorito. Porse a Gaby un seme radiofonico identico a tutti gli altri. La differenza stava nel fatto che quel particolare seme era collegato con Gea.

Gaby prese il seme e si allontanò dal gruppo. Si fermò in una piccola radura tra gli alberi, e parlò per qualche tempo a voce bassa. I titanidi, in base al principio che le notizie che giungono dagli dèi sono raramente buone notizie, non avevano alcuna intenzione di origliare quel genere di conversazioni, ma notarono che Gaby, anche dopo che il colloquio fu chiaramente terminato, rimase per qualche tempo a riflettere su ciò che le era stato detto.

— Hai voglia di portarmi alla Casa della Melodia? — chiese infine a Salterio.

— Certo. Vai di fretta?

— Sì e no. Rocky non si fa vedere da quasi un chiloriv. Sua Maestosità vuole che andiamo a cercarla, per ricordarle che siamo quasi arrivati all’epoca del Festival.

Salterio aggrottò la fronte.

— Gea ha accennato al tipo di problema?

Gaby sospirò. — Sì. Dice di farle passare la sbronza.

10

La Casa della Melodia

Da molto tempo ormai, i titanidi erano costretti a vivere sotto una terribile pressione. Tra tutte le creature di Gea, soltanto loro parevano poco idonei al loro habitat. Gli aerostati erano precisamente come dovevano essere fatti per vivere come e dove vivevano. Ogni loro aspetto era perfettamente funzionale, come per esempio il loro terrore del fuoco. Gli angeli erano talmente vicini all’impossibile che Gea non aveva avuto lo spazio sufficiente per inserire tra le loro caratteristiche anche quell’amore per il gioco che era sempre presente nelle sue creature. Li aveva dovuti progettare con margini di tolleranza ridotti a pochi grammi, subordinando ogni cosa alla loro ampiezza alare di otto metri e ai muscoli occorrenti per muovere quelle ali.