I titanidi erano chiaramente delle creature adatte alle grandi pianure. Ma, allora, perché metterli in grado di arrampicarsi sugli alberi? La parte inferiore del loro corpo era equina, anche se con zoccolo fesso, e, data la ridotta gravità di Gea, zampe ancor più sottili di quelle dei purosangue sarebbero state più che sufficienti. Invece, Gea aveva dato loro cosce e garretti da cavallo da tiro. Garrese, groppa, posteriore erano massicci fasci di muscoli.
Soltanto i titanidi, comunque, tra tutte le creature di Gea, riuscivano a sopportare la gravità della Terra. Erano divenuti gli ambasciatori di Gea presso l’umanità. E considerato che la razza dei titanidi era nata meno di due secoli prima, era chiaro che tutta quella forza non le era stata data per caso. Nel crearla, Gea aveva semplicemente fatto dei preparativi per il futuro.
Grazie a tale forza, gli umani residenti su Gea si erano trovati a godere di un vantaggio in più del previsto. Il normale «passo» dei titanidi non comportava per il cavaliere i consueti sballonzolamenti di chi sta in sella a un cavallo terrestre. In quella bassa gravità, i titanidi correvano come saette, mantenendo il corpo sempre allo stesso livello grazie a leggerissimi tocchi degli zoccoli. La corsa era talmente priva di scosse, in realtà, che Gaby non ebbe difficoltà a dormire. Si sedette a cavalcioni e appoggiò la guancia contro la schiena di Salterio.
E mentre Gaby dormiva, Salterio si arrampicò sul sentiero a tornanti che portava ai Monti Asteria.
Era una bella creatura del tipo a pelle nuda, color cioccolato al latte. Aveva una folta criniera arancione, che spuntava non solo sulla nuca, ma anche sul dorso del collo e su parte della schiena, che era identica a quella umana, e sia la criniera sia la coda erano acconciate sotto forma di lunghe trecce. Come per tutti gli esseri della sua specie, la faccia e il torso avevano un aspetto femminile. Non aveva barba, e aveva occhi grandi e, in proporzione, assai più distanziati tra loro di quelli di un essere umano, con ciglia lunghissime. Aveva seni grandi, di forma conica. Ma tra le gambe anteriori c’era un pene che, agli occhi di molti terrestri, aveva un aspetto fin troppo umano. Tra le gambe posteriori ne aveva poi un secondo, molto più grosso, e sotto l’elegante coda arancione c’era una vagina, ma per i titanidi la famosa e applaudita différence stava nell’organo frontale. Salterio era maschio.
Il sentiero da lui seguito si snodava attraverso il bosco ed era ormai invaso da liane e virgulti, ma ogni tanto si poteva ancora capire che in origine era sufficientemente grande da permettere il passaggio di un grosso carro. In alcune parti si scorgevano ancora vaste zone di asfalto. Faceva parte della Carrozzabile Circum-Gea, costruita più di sessanta anni prima, e alla cui costruzione aveva preso parte anche Gaby. Per Salterio, invece, era sempre stata come era adesso: inutile, poco usata, in progressivo disfacimento.
Giunse in cima al plateau di Aglaia, alle Nebbie Basse. Presto se le lasciò alle spalle, e trotterellò lungo l’argine del Lago di Aglaia, da dove si scorgeva Talia, nella distanza, ingordamente intenta a ingoiare le acque lacustri. Salì alle Nebbie Mediane, e poi a Eufrosine e alle Nebbie Alte. Lassù Ofione ridiveniva un fiume, per un breve tratto, prima di entrare nel sistema a doppia pompa che lo sollevava fino al Mare di Mezzanotte.
Prima di giungere alle ultime pompe, Salterio deviò verso nord e seguì il corso di un piccolo torrente di montagna. Lo passò al guado in un punto dove l’acqua era bianca di spuma, e da quel punto in poi si arrampicò sul fianco della montagna. Da qualche tempo era uscito da Iperione e si trovava in Rea, ma su Gea le linee di confine non erano mai ben definite. Il viaggio era iniziato nel centro della zona crepuscolare tra Iperione e Rea, l’area indistinta tra l’eterna, ma bassa, luce diurna del primo e l’eterna notte senza luna dell’altra. Procedendo lungo il suo tragitto, si era progressivamente avvicinato alla notte, e in qualche punto indeterminato dei Monti Asteria l’aveva raggiunta. Per lui, la notte di Rea non comportava problemi di visibilità; la visione notturna dei titanidi era perfetta, e in quella zona prossima al confine giungeva ancora molta luce riflessa dalle pianure di Iperione, che salivano alle loro spalle.
Salì sulla montagna arrampicandosi lungo un sentiero stretto ma ben delineato. Con una serie di stretti tornanti alpini superò due passi e giunse alle profonde vallate situate al di là dei monti. Le montagne di Rea erano scoscese e rocciose, con inclinazione media di una settantina di gradi. Gli alberi di alto fusto erano scomparsi, ma il terreno era coperto di licheni spessi e compatti come un panno da biliardo. Di tanto in tanto si scorgevano cespugli dalle larghe foglie, le cui radici affondavano nella roccia viva e scendevano per varie centinaia di metri prima di giungere al corpo nutriente di Gea, le vere ossa della montagna.
Presto riuscì a scorgere l’insegna luminosa della Casa della Melodia, in mezzo a due montagne. Dopo avere svoltato dietro un costone, si affacciò su una scena che era davvero unica, perfino su Gea che aveva la passione per l’inconsueto.
Tra due cime montane appuntite si stendeva una stretta sella di terreno: un altopiano che sui fianchi scendeva quasi a perpendicolo. Il plateau centrale era chiamato Machu Picchu, dal nome del luogo in cui gli inca avevano costruito fra le nuvole una città di pietra. Un singolo raggio di luce, proveniente dagli specchi che illuminavano Iperione, si era inspiegabilmente allontanato dal gruppo ed era entrato nella notte, per illuminare di luce dorata il pianoro. Era come se il sole, in un pomeriggio di tempesta, avesse trovato un piccolissimo varco tra le nubi più nere che si possano immaginare.
Sull’intero Machu Picchu sorgeva un solo edificio. La Casa della Melodia era una casa di legno a due piani, dipinta di bianco, con un tetto di pietra verde. Vista da quella distanza, pareva una casa giocattolo.
— Siamo arrivati, Capo — cantò il titanide. Gaby si rizzò a sedere, si strofinò gli occhi, si voltò a guardare la Valle Cirocco.
— "Guardate le mie opere, o Numi, e disperate" — mormorò. — Salterio, quella ragazza deve farsi esaminare il cervello. Qualcuno dovrebbe dirglielo, una volta o l’altra.
— Gliel’hai detto tu stessa, la scorsa volta — le ricordò Salterio.
— Già, hai ragione. — Gaby rabbrividì. Quel ricordo le faceva ancora male. — Scendiamo, per piacere.
Seguendo il sentiero, giunsero alla stretta striscia di terra che portava al Machu Picchu. Per raggiungere il pianoro occorreva servirsi di un ponte di corda, sopra un profondo abisso. Con pochi colpi d’ascia, quel ponte poteva essere facilmente abbattuto, isolando così Cirocco da qualsiasi attacco, eccettuati quelli dall’aria.
All’altra estremità del ponte sedeva un giovanotto con scarpe chiodate e tuta color kaki. Dalla sua espressione delusa, Gaby lo etichettò subito come uno dell’interminabile processione di pretendenti che, anno dopo anno, si recava laggiù a conquistare le grazie della misteriosa, solitaria Maga di Gea. Quando arrivavano, di solito scoprivano che era tutt’altro che solitaria, che aveva già tre o quattro ganzi in servizio permanente effettivo, e che era straordinariamente facile da conquistare. Finire a letto con lei non era particolarmente difficile, se non dava fastidio la folla. Uscirne senza conseguenze era tutt’altra cosa. Cirocco tendeva a prosciugare l’anima dei suoi amanti, e se la loro anima era talmente sottile da lasciarsi prosciugare, lei non se ne faceva più niente. Rispetto a ciascuno di loro, aveva settant’anni di esperienza di più. Sarebbe bastato questo a renderla affascinante, ma novantacinque anni di attività sessuale le avevano dato un’abilità sovrumana, molto al di là della loro immaginazione. Si innamoravano di lei a decine, e lei li allontanava educatamente quando la loro infatuazione cominciava a diventare seccante. Gaby li chiamava i Bimbi Abbandonati.