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— Io… uhm, mi spiace di non avere niente da darti. Non so che razza di storia ti ho raccontato, ma mi sorprende che tu non ti sia fatta…

— Pagare in anticipo? Non sono nata ieri. Sapevo benissimo cosa facevo. — Si recò alla finestra e appoggiò le mani al davanzale. — Sono arrivata da qualche tempo. La Terra non mi è mai stata molto amica. Mi piacciono queste persone. Almeno, io le vedo come persone. Probabilmente, comincio a convertirmi alle abitudini degli indigeni anch’io. — Lo guardò in modo strano, come se si aspettasse che si mettesse a ridere. Visto che non lo faceva, rise lei, e aggiunse: — Al diavolo, io stessa ho una terza parte di figlio titanide. Dopo un po’ di tempo che sei qui, cominci a tirare il boccino.

Si avvicinò a Chris e lo baciò sulla guancia. — Non riesco a credere che, dopo tutto quello che abbiamo fatto, tu ne abbia completamente perso la memoria. Mi sento offesa nell’orgoglio professionale. — Per un momento, Chris temette che si mettesse a piangere, e non riuscì a capirne il motivo.

— In questo viaggio, avete con voi una ragazza — disse poi lei.

— Robin?

— Proprio lei. Dille "ciao" da parte mia, e di stare attenta. E buona fortuna. Augurale buona fortuna da parte mia. Me lo fai, questo favore?

— Se mi ripeti il tuo nome.

— Trini. Dille di stare attenta a quella Gaby Plauget. È pericolosa. Quando farà ritorno, qui sarà sempre la benvenuta.

— Glielo dirò.

15

La Gata Encantada

Titantown era protetta da un immenso albero costituitosi quando vari alberi più piccoli si erano uniti a formare un unico organismo-colonia. Anche se i titanidi non amavano i piani regolatori e l’urbanistica, i loro gusti finivano per imporre una certa struttura all’abitato. Preferivano abitare a meno di cinquecento metri dalla luce, e per questo le loro abitazioni tendevano a disporsi ad anello alla periferia dell’albero. Alcune case erano costruite direttamente sul terreno, altre erano appollaiate sui giganteschi rami che si stendevano orizzontalmente e che erano retti da tronchi ausiliari, grossi a loro volta come sequoie.

Sparsi in tutto l’anello residenziale, ma in prevalenza sulla parte interna, c’erano le botteghe, le forge, i mulini e le raffinerie. In direzione dell’esterno, verso il sole e talvolta all’aria aperta, c’erano bazar, negozi, mercati. Sparsi qua e là per la città c’erano poi gli edifici pubblici e i servizi, i pompieri, le biblioteche, i magazzini e le cisterne. L’acqua era in parte piovana e in parte veniva dai pozzi, ma quella dei pozzi conteneva sali amari ed era lattiginosa.

Robin aveva trascorso vario tempo nell’anello più esterno, e si era servita del medaglione datole da Cirocco per acquistare provviste per il viaggio. Aveva scoperto che gli artigiani titanidi erano cortesi e servizievoli. Invariabilmente le consigliavano gli articoli di migliore qualità, anche nei casi in cui sarebbe stato sufficiente qualcosa di economico. Di conseguenza, lei ora possedeva una borraccia di rame con complessi arabeschi in filigrana che l’avrebbero resa degna del tavolo dei banchetti dello Zar. L’impugnatura del coltello era sagomata per adattarsi perfettamente alla sua mano, e inoltre aveva un rubino che sembrava un grande occhio di vetro. Le avevano fatto un sacco a pelo su misura, di un materiale così riccamente ricamato che lei non osava appoggiarlo a terra. Cornamusa, il titanide da lei conosciuto nella tenda di Cirocco, le aveva fatto da guida; cantando la traduzione ai mercanti che non parlavano inglese.

— Non preoccuparti — le aveva detto. — Come puoi notare, qui nessuno paga in denaro. Noi non lo usiamo.

— Che sistema usate, allora?

— Gaby lo chiama comunismo non coercitivo. Dice che con gli umani non funzionerebbe, perché sono troppo avidi ed egoisti. Scusa, ma riferisco quello che ha detto lei.

— Non c’è niente di cui ti debba scusare. Probabilmente ha ragione.

— Non so. È vero che non abbiamo i problemi associati alla gerarchia che pare abbiate voi umani. Non abbiamo leader, non lottiamo tra noi. La nostra economia si basa sugli Accordi e sui meriti. Tutti lavorano, sia per la produzione di consumo, sia per la comunità. Si accumula prestigio… voi potreste chiamarla ricchezza, o credito… mediante le proprie azioni, o con l’età, o con la necessità. A nessuno manca l’indispensabile; quasi tutti godono almeno di qualche lusso.

— Non la chiamerei ricchezza — disse Robin. — Anche noi, nella Congrega, non usiamo denaro.

— Davvero? E qual è il vostro sistema?

Robin rifletté con tutto il distacco di cui era capace, ricordando il lavoro sociale obbligatorio, imposto da tutta una serie di punizioni, che arrivavano alla morte inclusa.

— Chiamalo comunismo coercitivo. Accompagnato da un sistema di baratti.

La Gata Encantada si trovava nei pressi del tronco del grande albero. Robin c’era già stata, una volta, ma l’oscurità, in quella parte di Titantown, era perpetua, e non c’erano piantine stradali. Non c’erano neppure le strade. Per trovare un posto qualsiasi, occorrevano una lanterna e una grossa dose di fortuna.

Robin pensava al centro della città come al quartiere del tempo libero. La descrizione era abbastanza giusta, anche se, come in tutto il resto di Titantown, c’erano negozi, e anche abitazioni, sparsi fra le sale di danza, i teatri e le bettole. Tra l’anello esterno e il tronco c’era una zona relativamente disabitata. Era la parte meno frequentata della città, occupata da piccoli orti che crescevano in quell’oscurità calda e umida. Gran parte della città era illuminata da grandi lampade di carta; laggiù se ne vedevano poche.

Era la zona che corrispondeva alle sue idee di un giardino pubblico. Sua madre l’aveva avvertita di tenersi lontana da essi, perché laggiù si nascondevano uomini che saltavano addosso alle donne per stuprarle. Naturalmente, gli umani che si spingevano in quella zona di Titantown erano pochi, ma nessuno impediva loro di recarsi laggiù. Lei pensava di avere superato le sue preoccupazioni a proposito dello stupro, ma non riusciva a fare a meno di pensarci. C’erano dei posti dove l’unica luce era quella della sua lanterna.

Udì un sibilo che le fece fare un sobbalzo. Si fermò a controllarne l’origine, e vide alcuni filari di piante basse e carnose che emettevano una fine nebbiolina. Chiunque fosse cresciuto nella Congrega, con le sue file di spruzzatori che attraversano tutta la concava superficie agricola, avrebbe riconosciuto immediatamente la funzione di quella nebbiolina. Respirò a pieni polmoni, sorridendo. L’odore della terra umida la riportava ai giorni dell’infanzia, a un’epoca priva di complicazioni, trascorsa a giocare nei campi di fragole mature.

La taverna era un basso edificio di legno, con la consueta larghissima doppia porta. Accanto alla porta pendeva l’insegna: due cerchi, uno sopra l’altro. In quello in alto, che era più piccolo, erano disegnate due punte in cima, gli occhi a mandorla, un sorriso pieno di denti.

Perché una gatta, si chiese, e perché spagnola? Quando i titanidi imparavano una lingua umana, si trattava invariabilmente di quella inglese, ma laggiù c’era invece la scritta in spagnolo, proprio sopra la porta: La Gata Encantada, senza le solite rune del loro alfabeto. Erano una strana razza, decise Robin. Erano assai simili agli uomini, sotto molti aspetti. Numerose delle loro capacità erano uguali a quelle umane. Gli oggetti che costruivano erano in gran parte uguali a quelli che costruivano gli uomini. Anche le loro arti erano simili a quelle umane, eccetto beninteso la loro musica trascendente. Il loro strano sistema di riproduzione era l’unica caratteristica che li distinguesse nettamente.

Be’, forse non proprio l’unica, si disse poi, entrando nella Gata, quando lo sguardo le cadde sulla vasca piena d’acqua che era un elemento standard di tutti gli edifici titanidi aperti al pubblico. Il pavimento era di sabbia, con uno strato di paglia. Tutto considerato, i titanidi avevano risolto il problema di conciliare tra loro urbanizzazione e incontinenza assai meglio di quanto non fossero riusciti a farlo, per esempio, a New York City, all’epoca del cavallo e del calesse. La città era piena di piccole creature simili ad armadilli che si nutrivano unicamente di quei mucchietti, dappertutto presenti, di grosse palle color arancione. Nelle abitazioni private il problema veniva risolto di volta in volta, quando si presentava, ricorrendo a paletta e secchiello. Ma, dove si riunivano molti titanidi, quella soluzione era impossibile. Gettavano al vento il superfluo e poi se ne dimenticavano. Ecco perché c’erano quelle vasche piene d’acqua: per pulirsi i piedi prima di ritornare a casa.