Quando giunse il momento di preparare il cibo, però, i titanidi piantarono in terra tutt’e quattro i piedi e allontanarono i giovani umani. La cucina dei titanidi era quasi perfetta come la loro musica. Per il primo giorno di viaggio frugarono tra i pacchetti e cercarono i cibi che rischiavano di guastarsi: i bocconi scelti, portati per essere mangiati subito. Gettarono legna sul fuoco e costruirono attorno a esso un muretto circolare di sassi levigati, tirarono fuori le pentole di rame, e fecero i gesti magici con cui i titanidi riuscivano a trasformare carne e pesce in miracoli di improvvisazione.
Poco più tardi, il frutto della loro attività cominciò a diffondersi nell’aria. Gaby si sedette ad assaporare quell’attesa, e si sentì felice come non lo era più stata da molto tempo. Si ricordava di cibi molto più semplici, mangiati in compagnia, molti anni prima, quando lei e Cirocco, stanche e doloranti e senza la certezza di sopravvivere ancora per un altro giorno, erano state vicine più che mai. Erano ricordi dolci e amari insieme, ma l’età le aveva insegnato che per sopravvivere occorreva afferrarsi alle buone cose della vita. Avrebbe potuto lamentarsi di tutto ciò che era andato storto da quel giorno lontano in poi, o avrebbe potuto preoccuparsi per Cirocco, che in quel momento, nella tenda, in preda ai conati, architettava qualche piano per recuperare la bottiglia dalla sacca di Salterio. Invece, preferiva assaporare l’odore del buon cibo, ascoltare il rumore rassicurante della pioggia che si mescolava ai canti dei titanidi, sentire il primo soffio della brezza rinfrescante, lungamente attesa, che giungeva dall’est.
Aveva centotré anni, e partiva per un viaggio che, come tutti i suoi viaggi precedenti, forse non avrebbe mai finito. Su Gea non c’erano assicurazioni sulla vita, neppure per la Maga. Tantomeno per una rompiscatole indipendente come lei, che veniva tollerata da Gea unicamente perché si poteva fare più affidamento su di lei che su Cirocco.
L’idea non la turbava affatto. Contava di sopravvivere e di prosperare. Un tempo, l’idea di raggiungere un’età come la sua sarebbe stata inconcepibile, ma ora sapeva che i centenari sono sempre giovani, sotto la loro scorza; lei, accidentalmente, aveva la fortuna di avere anche un aspetto giovanile e di sentirsi giovane. Oggi si sentiva sedicenne, sui Monti San Bernardino, con il suo telescopio e il suo fuoco, entrambi fatti da lei, in attesa che il cielo si oscurasse e che comparissero le prime stelle. Cosa si poteva chiedere di più alla vita?
Sapeva di non poter crescere di più. Né si aspettava di farlo. Con l’aumentare dell’età, si era accorta che aumentavano l’esperienza e la conoscenza, si allargavano le prospettive. C’erano molte cose che, in apparenza, potevano continuare a crescere per sempre, ma in realtà si raggiungeva a un certo punto un plateau di saggezza. Se fosse riuscita a giungere al secondo secolo, non si aspettava di cambiare ancora in modo significativo. Queste idee le avevano dato un po’ di preoccupazione al compimento dell’ottantesimo anno, ma ormai aveva smesso di pensarci. Le bastavano le preoccupazioni di ciascun giorno.
E quel giorno le riservava ancora una preoccupazione, prima di concludersi.
Guardò Robin che si muoveva accanto al fuoco, e trasse un sospiro.
Il pranzo era al solito livello di eccellenza dei titanidi, a parte una singola nota aspra. Alla lettera. Di tanto in tanto, l’arte culinaria dei titanidi impiegava una potentissima spezia che era preparata dai semi macinati di un frutto azzurro, grosso come un cocomero. Aveva un elegante nome nel linguaggio cantato dei titanidi, ma gli umani la chiamavano generalmente "iper-limone". Era bianca e granulosa, e pochi pizzichi erano sufficienti per qualsiasi ricetta.
Quando il cibo fu quasi pronto per essere servito, Salterio si voltò all’improvviso e sputò in terra il boccone di verdura che stava assaggiando. Per qualche momento gli bruciarono troppo le labbra per riuscire a parlare, e gli altri titanidi lo guardarono con aria interrogativa. Lui indicò il cucchiaio, e Valiha ne assaggiò il contenuto, con la punta della lingua. Fece una smorfia.
Non occorse molto tempo per scoprire che un sacchetto di cuoio con la scritta SALE conteneva in realtà concentrato di iper-limone. Era stata Oboe ad acquistare quel sacchetto. Dopo molte discussioni, i quattro titanidi, scandalizzatissimi dell’accaduto, giunsero alla conclusione che il venditore, un ex dedito alla tequila, e ora convinto astemio, chiamato Cetra, aveva deciso, per qualche suo motivo, di fare quello scherzo al gruppo della Maga.
Nessuno dei titanidi riuscì a ridere della burla. Secondo Gaby non si trattava di una grande cosa, anche se dovettero gettare via una pentola di verdura. Avevano ancora una buona scorta di vero sale. Un controllo delle altre provviste non rivelò ulteriori sostituzioni. Ma, per un titanide, sprecare del buon cibo era un peccato mortale. Nessuno di loro riusciva a capire perché Cetra avesse loro giocato quel tiro.
— Andrò subito a chiederglielo, al nostro ritorno — promise Salterio, buio in volto.
— E io ti accompagnerò — disse Valiha.
— Perché fate tante storie? — volle sapere Gaby. — È stato uno scherzo innocente. A volte, voialtri mi sembrate troppo seri. Sono lieta di vedere che apprezzate anche gli scherzi.
— Non ce l’abbiamo con gli scherzi — disse Oboe. — Un bello scherzo piace a tutti. Ma questo è… di cattivo gusto.
Anche se non era invecchiata, in Gaby qualcosa era cambiato con il passare degli anni. Dormiva meno di un tempo. Di solito, due ore su venti le erano sufficienti. Spesso rimaneva sveglia per sessanta e perfino per settanta rivoluzioni senza difficoltà.
I titanidi dicevano che diventava progressivamente simile a loro, e che presto avrebbe perso del tutto quell’antipatica abitudine del sonno.
Qualunque fosse il motivo, si era detta che per quei primi giorni poteva evitare di dormire fino al successivo accampamento. Si allontanò da sola, camminando per qualche tempo sulla riva del fiume e, quando fece ritorno, nel campo si sentiva solo la bassa cantilena dei titanidi in fase di riposo. Erano stesi attorno al fuoco, come quattro enormi sculture buffe: con le mani facevano dei lavoretti non impegnativi, e la loro mente seguiva chissà quali pensieri. Valiha era stesa sul fianco, appoggiata a un gomito. Oboe era stesa sulla schiena, e adesso il torso umano era allineato con il resto del corpo; aveva le gambe in alto, e le teneva ripiegate come un cagnolino che volesse farsi grattare la pancia. Di tutte le posizioni assunte dai titanidi, Gaby aveva sempre pensato che quella fosse la più buffa.
A una certa distanza dal fuoco c’erano quattro tende, in mezzo agli alberi. Passò davanti alla sua, che naturalmente era vuota. Nella seconda c’era Cirocco, che dormiva un sonno agitato: aveva in corpo due robuste dosi di liquore e un lago di caffè. Gaby sapeva che quello che la agitava non era il caffè.
Si fermò davanti alla tenda di Chris, e si disse che dare un’occhiata all’interno sarebbe stata solamente pura e semplice curiosità. Non aveva niente da dire a Chris. E dunque rimaneva soltanto l’ultima tenda. Attese per alcuni minuti, finché non sentì giungere un fruscio dall’interno.
— Posso parlarti un momento?
— Chi è? Gaby?
— Sì.
— Penso di sì. Entra.
Robin era seduta sul sacco a pelo, che era steso sopra un mucchio di muschio portato da Oboe. Gaby accese la lampada appesa al bastone della tenda, e vide che Robin la fissava con attenzione, ma senza particolare avversione. Indossava gli abiti che aveva portato per l’intera giornata.