— Basta! — gridò Gaby.
Robin le lasciò il braccio, e anche la fitta di dolore si allontanò progressivamente dalla spalla di Gaby. Sollevò la faccia dal fango e, muovendosi con cautela, riuscì a mettersi su un fianco. Cominciò a sperare di poter anche riprendere l’uso del braccio, un giorno o l’altro.
Sollevando gli occhi, vide che Robin sedeva a testa bassa, e che soffiava come un mantice.
— Rivincita? — disse Gaby.
Robin si mise a ridere. Senza alcun imbarazzo.
— Se tu lo dicessi sul serio — riuscì infine a dire — ti metterei le manette e ti ficcherei in una gabbia. Ma probabilmente riusciresti a rosicchiare le sbarre.
— Due o tre volte te la sei vista brutta, eh?
— Non ti dico quanto.
Gaby si chiese perché si sentisse così bene, considerato che aveva tutto il corpo dolorante. Doveva essere l’euforia del maratoneta, il rilassamento completo che sopraggiunge dopo essersi sforzati allo spasimo. Comunque, non aveva subito danni. Qualche livido, e la spalla le avrebbe fatto male per qualche giorno, ma l’indolenzimento che provava era dovuto solo alla stanchezza, non ai cazzotti.
Robin si alzò lentamente in piedi. Le tese la mano.
— Andiamo al fiume. Hai bisogno di una bella lavata.
Aiutata da Robin, Gaby riuscì a rialzarsi. Robin zoppicava leggermente, e neppure Gaby si sentiva molto sicura delle sue gambe, e perciò furono costrette a sostenersi a vicenda nel corso dei primi, faticosi, cento o duecento metri.
— Volevo chiederti davvero il significato del tatuaggio — disse Gaby, quando raggiunsero il fiume.
Robin si passò le mani sull’addome, ma non riuscì a pulirsi. — Adesso non si vede — disse. — Troppo fango. Cosa ne pensi?
Gaby stava per fare qualche commento educato e non impegnativo, ma poi cambiò idea.
— È una delle cose più orribili che abbia visto.
— Esattamente. È fonte di grande labra.
— Me lo spieghi? Tutte le streghe si sfigurano così?
Scesero cautamente nell’acqua del fiume e si sedettero sulle pietre. La pioggia era un po’ cessata, e si era ridotta a una fine nebbia, mentre a nord, da un varco tra le nuvole, giungeva nuovamente un po’ di luce.
Gaby non vedeva più il tatuaggio, ma non riusciva a toglierselo dalla mente. Era grottesco, agghiacciante. Assomigliava a un disegno anatomico, e mostrava i vari strati di tessuto, incisi e tirati indietro in modo da mettere a nudo gli organi sottostanti. Le ovaie parevano grappoli marci, pieni di vermi. Le tube erano annodate varie volte. Ma il peggiore era l’utero: era gonfio, fuoriusciva dall’«incisione» e perdeva gocce di sangue da una lacerazione. Era chiaro che la ferita era causata dall’interno, come se qualcosa si facesse strada per uscire. E della creatura ancora nascosta là dentro si scorgevano soltanto gli occhi, rossi e animaleschi.
Quando andarono a riprendere i vestiti, riprese a piovere forte. Gaby non si preoccupò quando vide che Robin inciampava e cadeva; il terreno era scivoloso, e nella lotta si era leggermente storta una caviglia. Ma alla quarta caduta di Robin divenne chiaro che c’era qualcosa che non andava. Barcollava, tremava e stringeva i denti.
— Ti aiuto io — disse Gaby, dopo un poco.
— No, grazie, ce la faccio da sola.
Un minuto più tardi, cadde a terra e non si rialzò più. Il suo corpo tremava, ma in modo ritmico e lento, senza scosse violente. Gli occhi erano fissi. Gaby si inginocchiò accanto a lei e le mise un braccio dietro le ginocchia, l’altro dietro le spalle, e fece per sollevarla.
— Nnnno… Nnno.
— Cosa? Ragiona, non posso lasciarti sotto la pioggia.
— Sssii… Sssii. Lllasciami…
Era un vero problema. Gaby la lasciò a terra, ma le rimase accanto, perplessa. Guardò in direzione del campo, che ormai non era lontano, e poi tornò a guardare Robin. Era in cima a una bassa collinetta, e non c’era il pericolo che l’acqua salisse. E neppure che Robin affogasse a causa della pioggia. In quella parte di Iperione non c’erano predatori che le potessero dare fastidio, anche se qualche piccolo animale poteva morsicarla.
Si ripromise di chiarire in seguito l’intera faccenda. Dovevano trovare qualche tipo di accordo, perché Gaby non era disposta a rifarlo. Ma per adesso si voltò dall’altra parte e fece ritorno al campo.
Oboe si alzò in piedi, preoccupata, quando vide che Gaby ritornava da sola. Gaby sapeva che la titanide le aveva viste allontanarsi insieme; probabilmente, sapeva cosa erano andate a fare, laggiù nella pioggia. Prima che traesse le conclusioni sbagliate, Gaby si affrettò a rassicurarla.
— Robin sta bene. Almeno, mi pare. Ha un attacco e non vuole essere aiutata. Potremo andare a riprenderla quando sarà il momento di partire. Dove vai?
— A prenderla, naturalmente, per riportarla nella tenda.
— Non credo che lo voglia.
Oboe pareva al massimo dell’irritazione; Gaby non aveva mai visto un titanide così irritato.
— Voi umani, e i vostri sciocchi giochi — disse, sbuffando in segno di insofferenza. — Io non sono tenuta a rispettare le regole di nessun gioco: né le sue, né le tue.
Robin scorse la figura di Oboe che si avvicinava in mezzo alla pioggia scrosciante. Maledizione, Gaby le aveva spedito la cavalleria; era ovvio.
— Sono venuta per conto mio — disse la titanide, sollevando Robin dal fango. — Qualsiasi concetto umano tu intenda difendere attraverso questo folle gesto, il concetto rimane intatto, perché non sei portata via da un essere umano.
Posami a terra, cavallino a dondolo troppo cresciuto, cercò di dire Robin, ma la sua gola emise solo qualche odioso gorgoglio.
— Mi occuperò io di te — disse teneramente Oboe.
Quando Oboe se la mise sulla groppa, in Robin era scesa un calma carica di minacce. Rinuncia alla lotta, sottomettiti, aspetta che finisca, e alla fine avrai la tua rivincita. Adesso non puoi fare niente, ma in seguito potrai fargliela pagare.
Oboe fece ritorno con un catino di acqua tiepida. Lavò Robin e la asciugò, la tenne sollevata come una bambola di pezza con i circuiti guasti e le infilò la camicia da notte ricamata. Poi la sollevò con una sola mano, come se il suo peso non superasse quello di un foglio di carta, e la fece scivolare nel sacco a pelo. Infine glielo chiuse sul collo.
E cominciò a cantare.
Robin sentì come una sorta di nodo bruciante in fondo alla gola. La cosa la riempì di orrore. Venire presa, lavata, vestita, infilata a letto… era una terribile offesa alla sua dignità. Aveva il dovere di essere in collera. Di prepararsi gli insulti da rivolgere a quella creatura non appena riacquistata la padronanza del suo corpo. Invece, si sentiva solo soffocare da un’emozione da tempo scordata.
Mettersi a piangere sarebbe stato inconcepibile. Se ci si abbandonava al pianto, non ci si poteva mai più liberare dall’autocompassione. Era la sua più grande paura, talmente spaventosa che non riusciva neppure a pronunciarne il nome. C’erano state delle volte in cui, tutta sola, aveva pianto. Ma non lo avrebbe mai fatto in presenza di altre persone.
Eppure, in un certo senso, lei era sola. La stessa Oboe l’aveva detto. Le regole umane, i concetti della Congrega, laggiù non erano validi. E poi non si trattava neppure delle regole umane: la Congrega non le aveva mai chiesto di non piangere. Glielo chiedeva unicamente la disciplina che lei stessa si imponeva.
Sentì un pianto e capì che proveniva da lei. Dall’angolo degli occhi le scendevano le lacrime. Il nodo che aveva in gola non si lasciava inghiottire, e per questo doveva venire fuori in qualche altro modo.