— Quando sono arrivata — disse lei, mentre facevano ritorno alla riva — sono caduta nel fiume. Sono riuscita a ritornare a riva perché avevo bisogno di farlo. Ma adesso non saprei dire come ho fatto.
— Probabilmente non dovevi fare troppa strada, oppure sei stata aiutata dalla corrente.
— Mi puoi mostrare come si fa?
— Più tardi, magari.
Giunti sulla spiaggia, lui le gettò di nuovo il sapone. Lei andò a immergere i piedi nell’acqua e incominciò a lavarsi le gambe. Lui la adocchiò, rimpiangendo che la luce non fosse sufficiente a permettergli di distinguere i tatuaggi. Poi, tutt’a un tratto, capì che era meglio che si sedesse.
— Cosa c’è?
— Niente.
— Ho visto cosa è successo. — Robin aggrottò la fronte. — Non dirmi che pensavi di poter…
— È involontario. È una sorta di complimento, chiaro? — Chris era un po’ imbarazzato, e seccato, anche. — Un riflesso. Non avevo intenzione di saltare addosso a nessuno. Mi sembravi molto bella, sulla riva del mare, e… non ci si può fare niente.
— Vuoi dire che ti è bastato guardarmi… — Si coprì con un braccio e con la mano dell’altro. A Chris, in quella posizione pareva più eccitante che mai. — Ecco cosa intendeva dire mia madre. E io, che pensavo che si fosse sbagliata anche a questo proposito!
— Cos’è che doveva essersi sbagliata? Credi che siamo tanto diversi? Io sono uguale a te. Non ti ecciti, guardando qualcuno che è desiderabile?
— Be’, certo, ma non pensavo che un uomo…
— Non credere che la cosa sia tanto diversa. Abbiamo un mucchio di cose in comune, che ti piaccia o no. L’orgasmo lo abbiamo tutti e due…
— Lo terrò presente — disse lei. Gli gettò il sapone, raccolse i vestiti e corse via per la spiaggia.
Chris si chiese se con le sue parole non aveva distrutto un’amicizia che stava nascendo bene. Quella ragazza gli piaceva, nonostante tutto. Anzi, nonostante lei. Voleva mantenere l’amicizia.
Poco più tardi, si chiese se Robin era scappata via perché era in collera. Poi, ripensando alla conversazione, capì che quella fuga, proprio mentre lui le faceva le sue obiezioni, poteva essere interpretata in un altro modo.
Probabilmente, a Robin non piaceva l’idea che lui fosse uguale a lei. Né, viceversa, lei a lui.
Una volta terminata, la zattera non avrebbe vinto il premio ad alcuna esposizione nautica, ma già dal punto di vista della dimensione era una meraviglia, considerando che era stata costruita in poche ore. Scivolò lungo la rampa su cui era stata costruita, e colpì la superficie dell’acqua con uno schiaffo sonoro. Chris si unì ai titanidi nel salutarne il varo. Anche Robin gridò. Entrambi avevano collaborato nelle ultime fasi della costruzione. I titanidi avevano mostrato come si impiegava la colla, e li avevano incaricati di collocare sui tronchi le tavole del ponte, mentre essi costruivano i parapetti.
C’era posto per tutti e otto. C’era una piccola cabina a prua, sufficiente per accogliere i quattro umani, e un tendone che serviva a riparare dalla pioggia i titanidi. Un albero centrale reggeva una vela argentea che si lasciava manovrare con il minimo indispensabile di cime. La direzione era data da un lungo remo. Sotto l’albero c’era anche un cerchio di pietre su cui si poteva accendere il fuoco.
Gaby, Chris e Robin attendevano accanto alla passerella che i titanidi terminassero di portare a bordo i loro sacchi, le provviste che avevano raccolto accanto alla riva, i mucchi di legna da ardere. Cirocco era già salita a bordo e si era fermata a prua, con lo sguardo perso nel vuoto.
— Vogliono che dia un nome alla zattera — disse Gaby, rivolta a Robin. — A quanto pare, da queste parti si sono fatti l’idea che io sia la persona più adatta ad assegnare i nomi alle cose. Io ho fatto notare che questa zattera sarà da noi usata per soli sei o sette giorni, al massimo, ma sono convinti che ogni nave debba avere un nome.
— Mi sembra giusto — disse Robin.
— Oh, davvero? Allora, daglielo tu.
Robin rifletté per un momento, poi disse: — Costanza. Si può dare a una nave il nome della propria ma…
— Perfetto. Assai meglio di quello della prima nave da noi usata su questo mare.
Per vari chilometri fu possibile spingere la Costanza mediante lunghe pertiche. Fu una fortuna, perché con la fine della pioggia era cessato anche il vento. Tutti diedero il loro aiuto, a eccezione di Cirocco. A Chris, quel duro lavoro piaceva. Sapeva che i titanidi riuscivano a spingere la zattera con più forza di lui, ma era lieto di dare il suo contributo. Continuò a spingere finché il fondale non divenne troppo profondo per le pertiche.
A quel punto vennero messi in mare quattro remi; tutti fecero a turno il lavoro degli schiavi incatenati al remo. Era ancor più faticoso che con le pertiche. Dopo due ore ai remi, Robin fu colta da un violento attacco e dovette essere portata nella cabina.
Durante uno dei suoi periodi di riposo, Chris fece il giro della cabina e vide che Cirocco aveva lasciato il suo posto, presumibilmente per andare a dormire. Si sdraiò sulla schiena, e sentì che tutti i suoi muscoli protestavano.
Il cielo notturno di Gea era assai diverso da quanto si immaginava.
Su Iperione, in una giornata chiara, il cielo era una macchia giallastra e sfocata, posta a una distanza indeterminabile, ma altissima. Solo seguendo la direzione del cavo verticale centrale fino al punto dove, apparentemente sottile come un filino, entrava nella Finestra di Iperione, si riusciva a capire dove fosse la posizione di quel solido cielo. Ma anche il tal caso occorreva tenere a mente che il cavo aveva cinque chilometri di diametro e che la sua apparenza di riga sottile era soltanto dovuta alla prospettiva e al poco coraggio dell’occhio che lo osservava.
Su Rea era diverso. Per prima cosa, Chris era vicino al cavo verticale centrale di Rea più di quanto non fosse mai stato vicino a quello di Iperione. Era un’ombra nera che balzava fuori del mare, si assottigliava rapidamente, e poi continuava a salire finché non svaniva del tutto. Ai suoi lati c’erano i cavi "verticali" nord e sud, erroneamente definiti verticali perché entrambi erano inclinati verso il centro, anche se meno di quelli che si erano lasciati alle spalle, a ovest della loro attuale posizione. I cavi diventavano invisibili sia a causa dell’oscurità, sia anche perché al di sopra di Rea non c’era una "finestra" ricurva. Rea viveva all’ombra di quella grande bocca a forma di campana che era chiamata Raggio di Gea.
Se non avesse visto nei disegni la sua forma e la sua vera dimensione, Chris non sarebbe mai riuscito a scoprirle. Vedeva soltano una forma ovale, buia, molto in alto sopra di lui. In realtà la distanza dalla superficie del mare era superiore a trecento chilometri. Attorno al bordo di quella bocca c’era una valvola che si poteva chiudere come l’iride di un occhio, isolando dalla zona della circonferenza lo spazio superiore. Adesso la valvola era aperta, e Chris poteva vedere un cilindro curvo, a base ellittica, che era lungo a sua volta trecento chilometri, e che terminava con la seconda valvola che dava accesso alla zona successiva, quella del mozzo della ruota di Gea. Era impossibile vedere fino a quella distanza, attraverso una così grande colonna di aria scura. Ma ciò che riusciva a vedere assomigliava alla canna di un fucile che avrebbe potuto usare dei planetoidi come proiettili. In quel momento, il fucile era puntato contro di lui, ma si trattava di una minaccia talmente esagerata da non potersi certamente prendere sul serio.
Sapeva che tra la valvola inferiore e l’altezza a cui si trovava la Finestra di Iperione, distanza che in verticale misurava un centinaio di chilometri, il raggio si allargava come la svasatura di una campana fino a diventare tutt’uno con il breve arco di "soffitto" che si stendeva sulle aree illuminate, ai due lati di Rea. Ma, anche sforzandosi, non riuscì a notare la svasatura, anche se la si poteva vedere perfettamente da Iperione. Un’altra deformazione dovuta alla prospettiva, si disse.