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In qualche punto del raggio c’erano delle luci. Suppose che fossero gli "oblò" di cui aveva sentito parlare. Visti dal suo punto di osservazione, erano file parallele sempre più sottili, come le luci ai margini della pista d’atterraggio, viste da un aeroplano.

Pian piano, comunque, si accorse che c’era anche un’altra luce, più vicina, posta alla sua sinistra; poiché era sdraiato sul ponte con la testa leggermente reclinata, gli parve che si trovasse un po’ più in alto della sua posizione. Si mise a sedere, e si guardò attorno: vide che la superficie di Nox era illuminata da una luminescenza perlacea e azzurrina che giungeva dall’interno delle acque. Dapprima pensò che fosse un alveare degli insetti marini di cui gli aveva parlato Cirocco.

— È una sottomarina — disse una voce alla sua destra. Chris sobbalzò per la sorpresa; Cirocco si era avvicinata silenziosamente a lui. — Ho inviato dei messaggeri qualche ora fa, sperando di attirarne una. Ma sembra che abbia troppo da fare per darci un passaggio. — Indicò il cielo a ovest, e Chris scorse una grossa macchia buia sullo sfondo della notte. Non gli occorreva Cirocco per capire che si trattava di un aerostato, e molto grosso.

— Poche persone possono dire di avere visto questo spettacolo — disse tranquillamente Cirocco. — Su Iperione non ci sono sottomarine perché non ci sono mari. Gli aerostati viaggiano dappertutto, ma le sottomarine rimangono dove sono nate. Ofione è troppo piccolo per loro.

Dall’aerostato giunse una serie di fischi penetranti, seguiti da sibili e sfrigolii provenienti dalla poppa della Costanza. Chris capì che l’aerostato aveva chiesto di spegnere il fuoco, e che i titanidi si erano affrettati a farlo.

Cirocco gli posò la mano sulla spalla. Indicò in direzione dell’acqua. — Laggiù — disse. Chris guardò, un po’ imbarazzato da quella mano, e vide una massa di tentacoli che salivano verso la superficie e che si contorcevano lentamente. Dai tentacoli si alzò un lungo peduncolo.

— È il suo occhio periscopico. Del corpo di un sommergibile, difficilmente riuscirai a vedere di più. Nota quel lungo rigonfiamento nell’acqua: è il suo corpo. Non esce mai fuori più di così.

— Ma cosa fa?

— Si accoppia. Taci, non disturbarli. Ti spiego io.

La storia era semplice, anche se non certamente ovvia. Sottomarine e aerostati erano femmina e maschio della stessa specie. Entrambi discendevano dai figli della loro unione, che erano asessuati, erano simili a serpenti ed erano pressoché privi di cervello, finché la lotta per la sopravvivenza non riduceva i loro grossi sciami a un piccolo numero di superstiti, lunghi una ventina di metri. A questo punto gli si sviluppava il cervello, completo di certe conoscenze razziali che né Gea né aerostati o sottomarine avevano mai spiegato a Cirocco. Non dipendevano da insegnamenti dei genitori, perché a partire dalla loro nascita né le madri né i padri se ne occupavano più.

Ma acquisivano l’intelligenza in qualche modo misterioso, e alla fine decidevano razionalmente di diventare maschio o femmina, aerostato o sottomarina. Ciascuna scelta comportava dei rischi. L’acqua conteneva molti predatori che divoravano le giovani sottomarine. Nell’aria non c’era questo genere di pericoli, ma un giovane aerostato non era in grado di fabbricarsi l’idrogeno. Il suo destino, dopo la metamorfosi, era quello di starsene a galleggiare sull’acqua, come un palloncino sgonfio, e di sperare che un aerostato adulto si decidesse, per così dire, a dargli una pompata. Nella sua flottiglia, nessun adulto riusciva però a provvedere a più di sei o sette giovani. Se non c’erano posti liberi, peccato per lui. La decisione di differenziarsi era irrevocabile.

Aerostati e sottomarine non avevano molte attività in comune. Avrebbero corso il rischio di non venire mai a contatto, sulla superficie separatoria tra i loro due mondi, se non ci fossero stati due curiosi particolari. C’era un’alga che cresceva solo nelle profondità marine, e che era necessaria agli aerostati per sopravvivere. E in cima agli alberi titanici, massicci spuntoni del corpo stesso di Gea, che crescevano fino all’altezza di sei chilometri, e solo negli Altopiani, spuntavano foglioline indispensabili alla dieta delle sottomarine.

Un amichevole accoppiamento era nell’interesse di entrambi i sessi.

Dai tentacoli che pendevano sotto il rigonfiamento mediano, nella grande mole dell’aerostato, si vide cadere qualcosa. I tentacoli della sottomarina si affrettarono ad afferrarlo e a farlo sparire. Si udì il forte sibilo dell’aerostato che mollava idrogeno per scendere verso le braccia tese dell’amata.

Dopo di questo non ci fu più molto da vedere. I tentacoli si intrecciarono e i corpi massicci si toccarono in corrispondenza della superficie marina, e parvero immobilizzarsi. Soltanto quando la zattera cominciò a essere sballonzolata dalle onde, Chris capì che quell’immobilità era solo un’impressione dovuta alla distanza.

— Stanno succedendo molte cose — confermò Cirocco. — Tra l’altro, c’è anche un modo per vedere l’accoppiamento più da vicino. Una volta viaggiavo su un aerostato che è stato preso dal desiderio d’amore. Ti racconto… anzi, lasciamo perdere. C’è da prendere dei notevoli scossoni.

Cirocco si allontanò senza far rumore, esattamente come era giunta. Chris continuò a guardare le onde. Dopo qualche tempo udì rumore di zoccoli sul ponte, e da dietro la cabina giunse Valiha, venuta a tenergli compagnia. Chris sedeva sul bordo della zattera, con i piedi che sfioravano l’acqua. Valiha si sedette allo stesso modo, e per un attimo, a causa di un gioco di ombre, la parte equina del suo corpo diede l’impressione di svanire. Divenne una donna molto grande, con le gambe molto sottili, che faceva dondolare nell’acqua due piedi che parevano gli zoccoli del diavolo. L’immagine lo sconvolse, e fu costretto a distogliere lo sguardo.

— Quant’è bello, vero? — chiese lei in inglese, ma una tale cantilena che, per un attimo, Chris pensò che avesse parlato nel linguaggio cantato dei titanidi.

— È interessante. — In realtà cominciava a essere stufo. Stava per alzarsi quando lei gli prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò.

— Oh.

— Hmmm? — Lei lo guardò, ma a Chris non venne in mente niente da dire. A quanto pareva, però, la cosa aveva poca importanza. Lei lo baciò sulla guancia, sul collo e sulle labbra. Chris, non appena poté, si affrettò a riprendere fiato.

— Aspetta. Valiha, aspetta. — Lei aspettò, guardandolo con grandi occhi innocenti. — Non credo di essere pronto. Voglio dire… non so cosa dirti. Non credo di poterlo fare. Non ora. — Lei continuò a guardarlo negli occhi. Chris si chiese se lo faceva per scorgergli negli occhi la follia, ma poi decise che era solo una sua impressione, dovuta al timore. Alla fine, lei gli strinse la mano, annuì e lo lasciò andare. Poi si alzò.

— Quando sarai pronto, fammelo sapere. D’accordo? — E si allontanò.

Chris si vergognò di se stesso. Anche se cercò di analizzare il motivo che lo spingeva a rifiutarla, non riuscì a trovare motivi soddisfacenti. In parte Valiha gli ricordava un periodo in cui non era padrone di sé. In quei momenti, lui era o molto più coraggioso, o molto più pavido. Pareva che quel particolare "episodio" fosse del tipo coraggioso, perché, per quanto ci riflettesse, trovava soltanto risposte poco rassicuranti alla domanda fondamentale: cosa fanno una titanide e un umano? Nonché il corollario: come farsi un’assicurazione sulla vita, prima di accertarlo?

Valiha era grossa. Gli metteva una paura del diavolo.