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Per molti giorni esaminarono tutta l’area circostante. Robin guardò dietro ogni angolo, chiamando il serpente per nome. Lasciò in giro dei bocconcini di carne per richiamarlo, ma la cosa non funzionò. Alla fine, la ricerca ebbe termine quando Robin comprese che non lo avrebbe più visto. Cominciò a chiedere a Chris e Valiha se l’animale poteva sopravvivere, e loro le dissero sempre che non avrebbe avuto problemi. Chris non ne era convinto.

Gradualmente, ricerca e domande svanirono. Robin accettò la perdita, e l’incidente scomparve oltre l’orizzonte della loro vita senza tempo.

Entrambi gli orologi erano rimasti nelle sacche di Cornamusa. Già in precedenza, Chris non aveva badato molto al trascorrere del tempo, e laggiù nella caverna non aveva modo di misurarlo. Eppure, c’era un processo che continuava a ticchettare come una bomba a orologeria: Valiha stava facendo un piccolo titanide.

Secondo lei, si era ferita verso la rivoluzione numero mille e duecento della sua gravidanza, ma lei stessa diceva di non ricordare niente della discesa fino a Teti. Chris tradusse le rivoluzioni in un mese e venti giorni, e si sentì meglio. Poi le chiese quanto tempo occorreva perché le guarissero le gambe.

— Tra mille rivoluzioni potrò probabilmente camminare con le stampelle — disse. — Quarantadue giorni.

— Con le stampelle, qui, non potrai fare molta strada.

— Probabilmente no, se occorre arrampicarsi.

— Occorre — disse Robin, che aveva esplorato la zona intorno al campo.

— Per una guarigione completa occorrono da quattro a cinque chiloriv. Non credo di poter fare molto cammino, dopo tre sole.

— Da cinque a sette mesi — calcolò Chris, e tirò un sospiro di sollievo. — Resterà poco margine di tempo, ma penso che potremo farti uscire prima della nascita.

Valiha parve sorpresa, poi capì.

— Ti sbagli — disse tranquillamente. — Pensi che occorrano nove dei vostri mesi. Ma noi facciamo più in fretta.

Chris si passò la mano sulla fronte.

— Quanto, in fretta?

— Spesso mi sono chiesta perché le femmine umane impieghino tanto tempo per produrre un bambino molto più piccolo e ancora così lontano dall’autonomia… senza voler offendere nessuno, beninteso. I nostri neonati sono già in grado di…

— Quanto? — domandò Chris.

— Cinque chiloriv — disse Valiha. — Sette mesi. Nascerà prima che possa uscire di qui sulle mie gambe.

L’impossibilità di misurare il tempo portava Chris a confondere l’ordine degli avvenimenti, ma ricordava di avere catturato il primo uccello luminoso dopo avere messo a posto le zampe di Valiha.

Quei piccoli animali luminescenti non avevano paura di loro, ma si allontanavano dal movimento. Quando Robin e Chris erano svegli, gli uccelli si tenevano lontano, ma quando dormivano venivano ad appollaiarsi accanto a loro.

Robin era stata in grado, fin dal primo "mattino", di allungare una mano per accarezzarne uno, ma, dopo qualche minuto, la decina di uccelli che aveva visto al suo risveglio si era allontanata. Riuscì a catturare l’ultimo e lo legò a un albero; l’uccello continuò a svolazzare tutto il giorno, e l’indomani ce n’erano di nuovo altri dieci. Questa volta, Robin li prese tutti.

Erano creature globulari piene d’aria. Avevano occhi piccoli e brillanti, erano privi di testa, avevano ali sottili come bolle di sapone e un solo piede con due dita. Chris non riuscì a scorgere una bocca e non riuscì a capire cosa mangiassero. Morivano se erano tenuti prigionieri per più di due giorni, e di conseguenza Chris e Robin li tenevano per un giorno solo, e ogni mattino ne prendevano altri. Dopo morti, parevano dei palloncini sgonfi. Se li si toccava nel punto sbagliato, davano una scossa elettrica. Chris pensava che funzionassero come le lampade al neon, a causa del colore della loro luce, ma la cosa pareva estremamente improbabile a lui stesso, e non lo disse a nessuno.

Pochi giorni dopo avere medicato Valiha, l’avevano spostata, perché non volevano rimanere sulla scarpata di un burrone, con un salto di venti metri sotto di loro. Chris si era chiesto come spostarla, e Robin gli aveva semplicemente suggerito di sollevarla. Nella ridotta gravità, erano in grado di farlo. La spostarono di pochi metri alla volta, e infine raggiunsero il pianoro che stava al di sopra della precedente posizione.

Lassù piazzarono la tenda, preparandosi a un’attesa di vari mesi, e trascorsero al suo interno gran parte del tempo, anche se la temperatura si manteneva fissa a ventotto gradi. Ma preferivano non vedere intorno a loro quella caverna piena di echi.

Valiha cominciò a intagliare il legno che Robin raccoglieva per lei durante i suoi viaggi di esplorazione. La titanide era quella che si annoiava di meno: per lei, era come un lungo periodo di riposo.

Si trovavano all’estremità occidentale di una caverna larga un chilometro e avente una lunghezza imprecisabile. Il pavimento era composto di rocce cadute, di crepacci, scarpate, punte. Dalla dimensione apparente degli uccelli appesi al soffitto, la caverna doveva essere alta almeno un chilometro.

Sia a nord che a sud c’erano numerose aperture. C’erano gallerie simili a quella da cui erano giunti. Molte parevano scavate nella roccia; alcune avevano anche armature di tronchi. Alcune salivano, altre scendevano, altre rimanevano orizzontali, ma tutte, dopo un centinaio di metri, si suddividevano in altre due o tre gallerie, che dopo un poco si suddividevano a loro volta. Inoltre, nelle pareti c’erano fessure come quelle che si trovano nelle caverne naturali. Ma al di là di esse, l’ambiente era così caotico che non valeva la pena di esplorarle. Da una galleria promettente si poteva passare a un varco sottilissimo, e da questo a una sala immensa.

Dapprima Chris si recò a esplorarle con Robin, ma al suo ritorno trovava sempre Valiha in un grave stato di disperazione, e dovette smettere, anche se gli dispiaceva che Robin le esplorasse da sola.

— Non mi piace — le diceva ogni volta. — Conosco un po’ di speleologia, e non è una cosa che si possa fare da soli.

— Ma Valiha ha bisogno di te. E qualcuno deve andare a prendere il cibo.

Era vero. Nelle caverne c’erano altri animali, oltre agli uccelli luminosi, e tutti si lasciavano catturare facilmente, anche se non era facile trovarli. Robin ne aveva scoperte tre specie, grosse come gatti, lente come tartarughe, prive di denti e di peli. Non si capiva cosa facessero, ma Robin li trovava sempre nei pressi di certe masse grigie, coniche, di una sostanza tiepida e simile a gomma, che potevano essere un animale sedentario o una pianta, ma che dovevano avere profonde radici e che quasi certamente erano vive. Lei chiamava familiarmente "tette" quelle masse gommose, perché le ricordavano le mammelle delle mucche, e "cetriolo", "lattuga" e "gambero" le tre specie animali. Non per il gusto, giacché tutti avevano lo stesso sapore di carne di manzo, ma perché avevano quelle forme. Aveva incontrato innumerevoli cetrioli senza mai notarli, finché un giorno non ne aveva colpito accidentalmente uno con un calcio, e quello aveva aperto un occhio enorme.

Tutti e tre temevano che Valiha non avesse cibo a sufficienza, o cibo del tipo giusto. — È difficile trovare quegli animali — diceva Robin. — Preferirei vederli scappare quando mi avvicino. Invece, mi può capitare di passare a un metro da uno di essi e di non vederlo.

Questo fino al giorno in cui Robin non tagliò una delle "tette" con il coltello, e fu colpita da uno schizzo di liquido bianco e denso.