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— Certo, lo facciamo tumultuosamente. Tu mi…

— Va bene, va bene, lascia stare i particolari! — la interruppe Chris.

— Non volevo dire niente di pornografico — disse Valiha, col tono della virtù offesa.

— Io… ehi, dove hai imparato certe parole? Hai mangiato un dizionario? — chiese Chris.

— Devo conoscere tutte le parole inglesi, per l’esperimento — spiegò lei.

— Esperimento?… no, lascia perdere, ne parleremo in seguito. So che una volta abbiamo fatto l’amore. Volevo solo sapere se era successo di nuovo.

— Certo, venti o trenta rivoluzioni fa.

— E non ti dà fastidio che io lo faccia solo quando sono pazzo?

Valiha rifletté per qualche istante. — Ti confesso che ho incontrato gravi difficoltà a capire cosa intendi dire con "pazzo". A volte tu perdi certe inibizioni… altra parola che non capivo bene. Questo ti porta a litigare con altri esseri umani. Io non ho problemi, perché se diventi insopportabile ti prendo per i capelli e ti tengo sollevato in aria finché non ti calmi. Poi comincio a ragionare con te, e tu ritorni a comportarti bene.

Chris rise senza allegria. — Non so cosa dire. Sono stato studiato dai migliori medici, e quelli mi hanno dato solo delle pillole inutili. Chissà cosa direbbero della tua cura!

— Funziona, però — disse lei, in tono di scusa. E aggiunse: — Ma suppongo che possa essere efficace solo in una società dove tutti sono più grossi di te.

Con qualche difficoltà, Chris trovò tre lunghi pali di legno e costruì un treppiede per Valiha, imbottendolo con i loro vestiti invernali, inutili nel clima temperato della caverna. Quando ebbe finito, Valiha si sollevò lentamente a forza di braccia, e Chris la aiutò a infilare le zampe nei fori. Con un sospiro di sollievo, infine lei si sistemò, e da quel momento in poi passò gran parte del tempo con le gambe sospese.

Ma non tutto il tempo, perché in quella posizione non potevano fare l’amore. Dapprima con riluttanza, Chris si lasciò convincere all’amore frontale dei titanidi, e presto si chiese come avesse potuto farne a meno. Poi capì che, naturalmente, l’aveva sempre fatto. Dopo avere accettato questa realtà, anche il latte di Gea gli sembrò migliore.

Valiha aveva molte somiglianze con una donna umana, ma non era uguale a essa. Non si poteva dire se fosse migliore o peggiore: era diversa. Quando pensava a questo, Chris era certo che non fosse affatto un caso, e aveva l’impressione di sentire, dietro le quinte, la risata di Gea. Che scherzo cosmico aveva fatto all’umanità, nel predisporre le cose in modo che la prima razza intelligente incontrata dall’uomo potesse fare gli stessi giochi erotici, e con la stessa attrezzatura. Capiva che le sue titubanze iniziali erano dovute al fatto che parte del corpo di Valiha era equina, e di solito si mantiene un certo distacco con gli animali. Ma trovò facile superare questi preconcetti: sotto molti aspetti, c’era assai meno di equino in Valiha di quanto non ci fosse di scimmiesco in lui.

Le stampelle dei titanidi erano fatte come quelle usate dagli uomini da migliaia di anni, e Chris non ebbe difficoltà a fabbricarne un paio.

Dapprima Valiha riuscì a fare solo una cinquantina di passi, prima di doversi fermare, e poi il tragitto di ritorno fino alla tenda. Poi, gradualmente, riuscì a percorrere tragitti più lunghi; Chris smontò la tenda, si mise in spalla tutte le loro attrezzature, compreso il treppiede per far riposare Valiha, e partirono. Con le stampelle, Valiha camminava ruotando le spalle: prima una spalla, poi l’altra, poi le gambe posteriori. Questo costituiva un notevole sforzo per la sua schiena di tipo umano e per la parte di colonna vertebrale che s’innalzava ad angolo retto, alla base del torso. Chris non sapeva come fosse lo scheletro dei titanidi all’attaccatura tra la parte umana e la parte equina, ma pensava che le sue vertebre fossero diverse da quelle dell’uomo: le permettevano infatti di ruotare la testa di centottanta gradi e di fare contorsioni impossibili. Ma scoprì che il mal di schiena dei titanidi era uguale a quello umano. Dopo ogni tragitto era costretto a massaggiarle a lungo i muscoli dorsali, contratti e indolenziti.

Pian piano, i muscoli si rafforzarono, ma non fu mai un modo agevole di camminare. Secondo Chris, il massimo tragitto giornaliero che poteva fare in quelle condizioni era di un paio di chilometri. Tutti i giorni incontravano alcuni dei segni lasciati da Robin. Non c’era modo di sapere quando li avesse lasciati, ma, anche se non lo dissero mai, pensavano che ormai avrebbe già dovuto fare ritorno.

Proseguirono, e ogni giorno la domanda divenne più inquietante.

Dove era Robin?

38

Un pezzo di bravura

Non si trattava semplicemente di ammettere che Chris aveva ragione. Robin se ne era resa conto fin dall’inizio. Partire da sola per un viaggio come quello era stato uno sbaglio.

Cercò di muovere il braccio, e riuscì finalmente a muovere la punta di un dito. Trangugiò lentamente la saliva. Uno dei suoi timori era sempre stato quello di affogare nella propria saliva. E poteva succedere. Così come poteva succedere di peggio. Per esempio, poteva scoprire, una volta ripreso il controllo, di essersi rotta la schiena. In tal caso era destinata a rimanere laggiù, al buio, per l’eternità, e anche se gran parte del tempo l’avrebbe trascorsa nella pace dell’oblio, le prime settimane non promettevano niente di buono.

Oppure, mentre era immobile, l’Uccello della Notte poteva calare su di lei e… be’, fare quello che faceva alle vittime immobilizzate.

Si sforzò di girare gli occhi per controllare se davvero, come temeva, l’Uccello della Notte fosse posato su una stretta cornice di roccia, poco sopra di lei. Ma, ancora una volta, non riuscì a scorgerlo.

Per scacciarlo, ricordò, bisogna fischiare. E poi si disse che era ridicolo. Aveva quasi vent’anni, e dall’età di sei non aveva più avuto paura dell’Uccello della Notte. Tuttavia, se in quel momento fosse riuscita a gonfiare le gote, si sarebbe messa a zufolare come un canarino.

Sapeva che i suoni lontani da lei uditi erano quelli di Chris e Valiha, o lo scroscio di ruscelli lontani, ma la sua immaginazione continuava a presentarle l’immagine dell’Uccello della Notte. Sapeva anche che un simile animale non era mai esistito, né sulla Terra né laggiù, e che era solo una storia che si raccontavano tra loro le bambine. Ma la caratteristica dell’Uccello della Notte era appunto quella di non lasciarsi vedere. Volava con ali d’ombra, e assaliva alle spalle; cambiava dimensione e forma per adattarsi a qualsiasi area buia: dentro una galleria, sotto una cuccetta, in un angolo dimenticato. E la creatura che la inseguiva. … ammesso che ci fosse davvero… si comportava come l’Uccello della Notte. Non si lasciava vedere. Si udiva soltanto, di tanto in tanto, il rumore secco degli artigli, del becco che si chiudeva di scatto.

Aveva visto che nelle caverne c’erano molti altri animali, oltre a quelli che aveva già incontrato, e anche varie specie di piante. C’erano lucertole trasparenti come vetro, con un numero variabile di gambe, da due a varie centinaia. Amavano il caldo, e diventavano sempre più numerose, cosicché, al suo risveglio, la prima cosa da fare era quella di toglierle dal sacco a pelo. C’erano animali simili a stelle di mare, e chiocciole aventi le forme più strane, l’una diversa dall’altra come i fiocchi di neve. Una volta aveva visto un uccello lampada catturato, in volo, da un predatore invisibile, e un’altra volta aveva scorto quello che forse era un pezzo del corpo di Gea privo della copertura di roccia, o forse era una creatura al cui confronto una balenottera azzurra avrebbe fatto la figura di un pesciolino. Non seppe mai che cosa era: le uniche caratteristiche da lei notate furono che la superficie era tiepida, che aveva la consistenza della carne o della gommapiuma e che, fortunatamente, non si muoveva.

E se tutte quelle creature vivevano in una caverna che a una prima occhiata sembrava solo una sterile distesa di rocce, perché non poteva esserci anche l’Uccello della Notte?