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Aprì gli occhi (non si era neppure accorto di averli chiusi), e guardò il minuscolo riquadro visivo sulla parete opposta. Toccò un contatto, ed apparve un’immagine olografica ingrandita.

Era Semyon Akorat, naturalmente.

Semyon Akorat, con la sua testa calva e oblunga. (Akorat si rasava la frangetta scura che gli rimaneva, rendendosi conto giustamente che pochi capelli radi avrebbero reso ancor più patetico il deserto al centro della sua testa, mentre un cranio ben fatto e armonioso, senza zone pilifere che ne interrompessero la continuità, avrebbe potuto avere un aspetto quasi imponente.) Semyon Akorat, con la sua testa calva, e con l’espressione preoccupata… sempre, anche quando non c’era motivo di preoccuparsi.

Pitt lo trovava sgradevole, non perché Akorat mancasse di efficienza o lealtà (in quanto a efficienza e lealtà non si poteva pretendere di più da lui, era inappuntabile), ma semplicemente per un riflesso condizionato. Akorat annunciava sempre una violazione della privacy di Pitt, un’interruzione dei suoi pensieri, la necessità di fare qualcosa che Pitt avrebbe preferito evitare. In breve, Akorat si occupava degli appuntamenti di Janus Pitt e li selezionava.

Pitt corrugò leggermente la fronte. Non ricordava di avere un appuntamento, del resto se ne dimenticava spesso, e Akorat era lì proprio per quel motivo.

«Chi è?» chiese rassegnato. «Nessuna visita importante, spero.»

«Assolutamente» confermò Akorat. «Ma forse farebbe meglio a riceverla.»

«Può sentirci?»

«Commissario» disse Akorat in tono di rimprovero, come se lo stessero accusando di negligenza. «Ovvio che non può sentirci, lei. È sull’altro lato dello schermo.» Parlava con estrema precisione, il che era confortante per Pitt. Era impossibile fraintendere le parole di Akorat.

«Lei?» fece Pitt. «Immagino si tratti della dottoressa Insigna, allora. Be’, attieniti alle mie istruzioni. Non senza appuntamento. Ne ho avuto abbastanza di lei per un po’, Akorat. Sono dodici anni che ne ho abbastanza. Inventa una scusa. Dille che sto meditando… no, non ci crederà… dille…»

«Commissario, non è la dottoressa Insigna. In tal caso non l’avrei disturbata. È… è sua figlia.»

«Sua figlia?» Pitt si concentrò un attimo per ricordare il nome. «Cioè, Marlene Fisher?»

«Sì. Naturalmente le ho spiegato che era occupato, e lei mi ha detto che dovrei vergognarmi di dire le bugie, perché, dalla mia espressione, si capiva chiaramente che era una bugia, e perché la mia voce era troppo tesa per essere sincera.» Mentre Akorat esponeva i fatti, il suo tono baritonale era colmo di indignazione. «Comunque, non vuole andarsene. Sostiene che lei la riceverà se saprà che sta aspettando. Vuole riceverla, Commissario? Francamente, i suoi occhi mi sconcertano.»

«Già, mi pare di avere sentito parlare dei suoi occhi. Be’, falla entrare, falla entrare… cercherò di resistere al suo sguardo. Ora che ci penso, deve darmi qualche spiegazione.»

Marlene entrò. (Molto sicura di sé, anche se contegnosa e senza alcuna aria di sfida, rifletté Pitt.)

Si sedette, posando le mani sulle ginocchia, aspettando che fosse Pitt a parlare per primo. Pitt la lasciò aspettare un po’, osservandola distrattamente. Di tanto in tanto l’aveva incontrata quand’era più giovane, ma ormai era da un po’ di tempo che non la vedeva. Da bambina non era graziosa, e non era graziosa nemmeno adesso. Aveva zigomi larghi, ed era piuttosto sgraziata, però aveva effettivamente degli occhi notevoli, e sopracciglia dalla linea armoniosa, e lunghe ciglia…

«Be’, Marlene Fisher» esordì Pitt. «Così, volevi vedermi. Posso sapere perché?»

Marlene alzò lo sguardo, l’espressione calma, ostentando la massima di sinvoltura. «Commissario Pitt, immagino che mia madre le abbia riferito che ho detto a un amico che la Terra sarà distrutta.»

Le ciglia di Pitt si aggrottarono sui suoi occhi piuttosto comuni. «Mi ha riferito, sì. E spero che ti abbia detto che non devi più parlare di certe cose in modo così sciocco.»

«Sì, me l’ha detto, Commissario. Ma non basta non parlare di una cosa perché questa cosa non sia vera, e non basta definirla sciocca perché sia sciocca.»

«Sono Commissario di Rotor, Marlene Fisher, ed è compito mio occuparmi di certe cose, quindi devi lasciarle a me, vere o false che siano, sciocche o non sciocche. Come ti è venuta in mente l’idea della distruzione della Terra? È qualcosa che ti ha detto tua madre?»

«Non direttamente, Commissario.»

«Indirettamente, però. È così?»

«Non ha potuto evitarlo, Commissario. Tutti parlano in cento modi. C’è la scelta delle parole. C’è il tono, l’espressione, il movimento degli occhi e delle palpebre, il modo in cui una persona si schiarisce la voce. Cento particolari. Capisce a cosa mi riferisco?»

«Perfettamente. Anch’io osservo quei particolari.»

«Ed è molto orgoglioso, Commissario. Pensa di essere molto in gamba come osservatore, e che questa sia una delle ragioni per cui è Commissario.»

Pitt parve sorpreso. «Non ho detto niente del genere, signorina.»

«Non a parole, Commissario. Non è stato necessario.» Marlene lo stava fissando negli occhi. Non c’era traccia di sorriso sul suo volto, ma gli occhi della ragazza sembravano divertiti.

«Be’, signorina, è questo che volevi dirmi?»

«No, Commissario. Sono venuta perché mia madre ultimamente ha avuto difficoltà a farsi ricevere da lei. No, non me l’ha detto. L’ho capito da sola. E ho pensato che, forse, avrebbe potuto ricevere me, invece.»

«D’accordo. Sei qui, adesso. Cosa hai da dirmi?»

«Mia madre è infelice perché ha paura che la Terra possa essere distrutta. Vede, mio padre è là.»

Pitt avvertì un lieve accesso di rabbia. Inconcepibile, permettere che una questione puramente personale interferisse con il benessere e il futuro di Rotor! Eugenia Insigna, rivelatasi utilissima all’inizio con la scoperta di Nemesis, era diventata da tempo un intralcio, un peso morto che gravava sulle spalle di Pitt. Sembrava che facesse apposta a imboccare sempre il sentiero sbagliato. E adesso che Pitt non voleva più vederla, ecco che gli mandava quella pazza di sua figlia.

«E questa distruzione di cui parli, quando dovrebbe avvenire, secondo te? Domani, o l’anno prossimo?» chiese Pitt.

«No, Commissario. Tra poco meno di cinquemila anni, lo so.»

«In tal caso, tuo padre sarà morto da un pezzo, allora… e anche tua madre, anch’io, anche tu. E quando saremo tutti morti, rimarranno ancora quasi cinquemila anni prima della distruzione della Terra e forse di altri pianeti del Sistema Solare… sempre che la catastrofe avvenga… e non avverrà.»

«È l’idea della distruzione, Commissario… in qualsiasi momento avvenga.»

«Tua madre ti avrà detto che, molto tempo prima che arrivi il momento fatidico, gli abitanti del Sistema Solare si renderanno conto di… di quello che secondo te dovrebbe accadere… e sapranno affrontare la situazione. E poi, non possiamo lamentarci della distruzione planetaria. Tutti i mondi devono scomparire, un giorno o l’altro. Anche se non ci sono collisioni cosmiche, ogni stella a un certo stadio della sua evoluzione diventa una gigante rossa e distrugge i suoi pianeti. Proprio come tutti gli esseri umani sono destinati a morire, anche i pianeti sono destinati a morire. La vita di un pianeta è un po’ più lunga, nient’altro. Capisci, signorina?»

«Sì» rispose seria Marlene. «Sono in ottimi rapporti col mio computer.»

("Non ne dubito" pensò Pitt… poi, troppo tardi, cercò di cancellare il sorrisetto sardonico che gli era comparso in faccia. Probabilmente le era servito per capire il suo atteggiamento.)

«Allora la nostra conversazione è terminata» disse Pitt, perentorio. «Questa storia della distruzione della Terra è una sciocchezza, e anche se non lo fosse, non è cosa che ti riguardi, e non devi più parlarne, altrimenti saranno guai… non solo per te, anche per tua madre.»