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Richard si sedette sul divano a rimuginare. I fatti dei due giorni precedenti diventavano sempre meno reali, sempre meno verosimili. A essere reale restava il messaggio lasciato da Jessica nella sua segreteria. Lo ascoltò e lo riascoltò, quella domenica, sperando ogni volta che si addolcisse, che nella sua voce apparisse un po’ di calore. Non accadde.

Pensò di uscire a comprare il giornale, poi decise di non farlo. Arnold Stockton, il capo di Jessica, una caricatura di uomo dai molti menti che si era fatto da sé, era il propietario dei giornali della domenica che non appartenevano a Rupert Murdoch. I suoi giornali parlavano di lui. E anche gli altri.

Invece, si fece un bel bagno caldo, ingurgitò parecchi panini e numerose tazze di tè. Per un po’ guardò la televisione e si costruì delle conversazioni immaginarie con Jessica.

Alla fine di ogni dialogo mentale facevano l’amore in modo selvaggio, rabbioso, appassionato e solcato di lacrime; dopo di che tutto era di nuovo a posto.

Lunedì mattina la sveglia di Richard non suonò. Si precipitò in strada alle nove meno dieci, la valigetta che ondeggiava furiosamente, e si mise a guardare di qua e di là come un folle, alla ricerca di un taxi.

Poi sospirò di sollievo, perché una grossa auto nera era entrata nella sua via e si dirigeva proprio verso di lui, con la scritta gialla TAXI in brillante evidenza. Agitò la mano.

«Taxi!»

Il taxi lo superò lentamente, ignorandolo, svoltò l’angolo e sparì.

Un altro taxi. Un’altra luce gialla a indicare che era libero. Questa volta Richard si mise a fare segnali in mezzo alla carreggiata.

Sterzò per superarlo e continuò per la sua strada.

Richard cominciò a imprecare sottovoce.

A quel punto si diresse di corsa verso la stazione della metropolitana più vicina.

Si tolse di tasca una manciata di monete, colpi con rabbia il pulsante della macchinetta dei biglietti per ottenerne uno di sola andata per Charing Cross, e infilò le monete nella feritoia.

Ogni moneta che inseriva scendeva dritta attraverso le viscere della macchina, per precipitare rumorosamente nel cassettino sul fondo. Non apparve alcun biglietto.

Tentò con un altro distributore. E con un altro ancora.

L’uomo addetto alla vendita dei biglietti era al telefono quando Richard si rivolse a lui per lamentarsi e acquistare direttamente quello che gli serviva; e a dispetto — o forse a causa — delle grida di Richard e del suo disperato picchiettare con una moneta sulla barriera di plexiglass, se ne rimase risolutamente a chiacchierare.

«Fanculo» annunciò Richard, saltando la barriera.

Nessuno lo fermò.

Nessuno parve interessato.

Scese le scale correndo, sudato e ansimante, e arrivò sulla banchina affollata proprio mentre arrivava un treno.

Da bambino, Richard aveva sofferto di incubi in cui semplicemente non esisteva. Non importava quanto rumore o cosa facesse, nessuno si accorgeva di lui.

Cominciò a sentirsi cosi anche in quel momento, mentre davanti a lui la gente si spintonava; venne preso a gomitate dalla folla, spinto di qua e di là da chi scendeva e da chi saliva.

Insistette, spingendo e sgomitando a sua volta, ed era quasi riuscito a salire — aveva già un braccio sul treno — quando le porte cominciarono a chiudersi sibilando. Ritirò la mano, ma la manica del soprabito rimase incastrata.

Richard si mise a prendere a pugni la porta e a gridare, aspettandosi almeno che il guidatore aprisse quel tanto che bastava a liberargli la manica. Invece il treno cominciò a muoversi e Richard fu costretto a correre sulla banchina, inciampando, sempre più veloce.

Lasciò cadere la valigetta e prese a tirare disperatamente la manica con la mano libera.

La manica si strappò e lui cadde in avanti, spellandosi le mani e lacerandosi i pantaloni all’altezza del ginocchio.

Con qualche difficoltà si rimise in piedi, ripercorse la banchina e recuperò la valigetta.

Guardò la manica strappata, la mano escoriata e i pantaloni bucati.

Poi risali le scale e lasciò la stazione della metropolitana. Nessuno gli chiese il biglietto neppure all’uscita.

«Mi dispiace, sono in ritardo» disse Richard a nessuno in particolare.

L’orologio sul muro dell’ufficio diceva che erano le dieci e mezzo.

Lasciò cadere la valigetta sulla sedia e si asciugò il sudore dal viso con il fazzoletto.

«Non potete immaginare cos’è stato arrivare qui» continuò. «Un vero incubo.»

Abbassò gli occhi sulla sua scrivania. Mancava qualcosa. O, per essere più precisi, mancava tutto.

«Dove sono le mie cose?» chiese alla stanza, alzando leggermente la voce. «Dove sono i miei telefoni? Dove sono i miei troll?»

Controllò nei cassetti. Vuoti anche quelli: neppure la carta di un Mars o una graffetta piegata a indicare che Richard fosse mai stato li.

Sylvia stava arrivando verso di lui, in conversazione con due gentiluomini piuttosto robusti. Richard le andò incontro.

«Sylvia? Cosa sta succedendo?»

«Mi scusi?» disse lei educatamente. Indicò la scrivania ai due signori nerboruti che la sollevarono uno da un lato e uno dall’altro e iniziarono a trasportarla fuori dall’ufficio.

«La mia scrivania. Dove la portano?»

Sylvia lo guardò fisso, lievemente perplessa. «E lei è…?»

Non so che farmene di questa merda, pensò Richard. «Richard» rispose sarcastico. «Richard Mayhew.»

«Salve» disse Sylvia. Quindi la sua attenzione scivolò su Richard come l’acqua sulle penne di un’anatra e disse, «No! Non là!» ai traslocatori, e si mise a rincorrerli mentre portavano via la scrivania.

La guardò andarsene. Poi attraversò l’ufficio e raggiunse la scrivania di Garry.

«Garry. Che succede? È uno scherzo o cosa?»

Garry si guardò intorno, come se avesse sentito un rumore. Quindi scosse il capo, sollevò il ricevitore del telefono e iniziò a comporre un numero.

Richard sbatté la mano sul telefono, interrompendo la comunicazione. «Guarda che non è divertente, Garry. Non so a che gioco stiate giocando, tutti voi!» Garry alzò lo sguardo su di lui. Richard continuò, «Se sono stato licenziato, basta che me lo diciate, ma questo far finta che io non sia qui…»

A quel punto Garry sorrise e disse, «Salve. Si, sono Garry Perunu. Posso esserle di aiuto?»

«Non penso proprio» rispose Richard con freddezza, e se ne andò dall’ufficio, lasciando la valigetta dietro di sé.

L’ufficio di Richard si trovava al terzo piano di un grande edifìcio piuttosto vecchio e pieno di correnti d’aria, a pochi passi dallo Strand.

Jessica lavorava circa a metà altezza di una grande struttura di specchi e cristallo nella City di Londra, quindici minuti a piedi in fondo alla strada.

Richard camminò fino in fondo alla strada.

Arrivò al palazzo Stockton in dieci minuti, superò di slancio le guardie di sicurezza in uniforme di servizio al piano terra, entrò in ascensore e sali.

L’interno dell’ascensore era pieno di specchi, e mentre saliva osservò la propria immagine riflessa. Aveva la cravatta mezza slacciata e di sghimbescio, il soprabito strappato e i pantaloni bucati, e i capelli erano un informe ammasso sudaticcio… Signore, aveva un aspetto tremendo.

Si udì un suono flautato e la porta dell’ascensore si apri.

Il piano del palazzo Stockton dove lavorava Jessica era decisamente opulento, in una sorta di stile minimalista.