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Scendendo le scale dell’ospedale fino a dove era possibile arrivare, attraversati i locali con le docce deserte, superate le toilettes del personale, oltrepassate le stanze piene di vetri rotti in cui il soffitto era completamente crollato, creando un’apertura verso la tromba delle scale che stava al di sopra, si giungeva a una piccola scaletta di ferro. E scendendo anche quei gradini, superando la zona paludosa in fondo alla scala e attraversando una porta di legno mezza marcia, ci si ritrovava nello scantinato, una stanza enorme in cui per centoventi anni il materiale di scarto dell’ospedale era stato accumulato, abbandonato e dimenticato; ed era là che mister Croup e mister Vandemar avevano per il momento stabilito la propria dimora.

I muri erano umidi, e dal soffitto colava acqua. Negli angoli si stavano lentamente decomponendo le cose più strane, alcune delle quali un tempo erano state vive.

Mister Croup e mister Vandemar stavano ammazzando il tempo.

Mister Vandemar aveva trovato da qualche parte un centopiedi — una creatura rosso-arancio lunga quasi venti centimetri, con pericolose punte velenose su entrambe le estremità — e se lo faceva correre sulle mani, osservandolo mentre gli girava tra le dita, scompariva su per una manica per riapparire un minuto dopo in uscita dall’altra.

Mister Croup stava giocando con delle lamette da barba. In un angolo ne aveva trovata una scatola intera, lamette vecchie di almeno cinquant’anni avvolte nella pergamina, e si era messo di impegno a pensare a come utilizzarle.

«Se posso avere la sua attenzione, mister Vandemar,» disse infine «punti i suoi occhiettini luccicanti su questo.»

Affinché smettesse di dimenarsi, mister Vandemar prese con delicatezza la testa del centopiedi tra un pollice enorme e un indice massiccio, quindi guardò mister Croup.

Mister Croup appoggiò la mano sinistra contro il muro, le dita allargate. Nella mano destra teneva cinque lamette, prese attentamente la mira e le scagliò verso il muro.

Ogni lametta si conficcò con precisione nella parete, tra le sue dita. Sembrava il numero di un bravissimo lanciatore di coltelli in miniatura.

Mister Croup tolse la mano dal muro, lasciandoci infisse le lamette, a evidenziare la posizione in cui erano state le dita, quindi si voltò verso il suo socio in cerca di approvazione.

Mister Vandemar non era per nulla impressionato.

«Be’? Cosa c’era di tanto intelligente?» chiese. «Non ha colpito nemmeno un dito.»

Mister Croup sospirò. «Non l’ho fatto?» ribadì. «Perbacco, che mi si squarci la gola, ha ragione. Come ho potuto essere cosi sventato?» Estrasse le lamette dal muro, una a una, e le lasciò cadere sul tavolo di legno. «Perché non mi fa vedere lei come si dovrebbe fare?»

Mister Vandemar annui. Ripose il suo centopiedi nel vasetto di marmellata vuoto.

Poi appoggiò la mano sinistra contro la parete.

Alzò il braccio destro: in mano teneva il coltello, pericoloso, tagliente e perfettamente bilanciato. Socchiuse gli occhi e lanciò.

L’arma attraversò l’aria come un coltello da lancio particolarmente grande e affilato che vola attraversando l’aria a una velocità davvero notevole. Con un rumore sordo la lama si conficcò nel muro, avendo prima colpito e trapassato il dorso della mano di mister Vandemar.

Suonò un campanello.

Mister Vandemar alzò lo sguardo, soddisfatto, con un coltello che gli attraversava la mano. «Così» disse.

In un angolo della stanza c’era un telefono. Si trattava di un vecchissimo modello in legno e bachelite, inutilizzato in ospedale già dagli anni Venti. Mister Croup sollevò il ricevitore, che era collegato a un filo molto lungo e ricoperto di stoffa, e parlò nell’imboccatura che era attaccata alla base. «Croup e Vandemar» disse suadente. «Antica Ditta. Annientamento ostacoli, eliminazione seccature, estirpazione arti fastidiosi e odontoiatria tutelare.»

La persona all’altro capo del filo disse qualcosa. Mister Croup si fece piccolo per la paura.

Mister Vandemar diede uno strattone alla mano sinistra, che era inchiodata al muro dal coltello.

«Oh. Si, signore. Certo, signore. E posso dirvi quanto la vostra confabulazione telefonica illumini e rallegri la nostra altrimenti tediosa e squallida giornata?» Un’altra pausa. «Naturalmente, smetterò di adulare e di strisciare. Con vero piacere. Un onore, e — cosa sappiamo? Sappiamo che…» Un’interruzione; si mise le dita nel naso con aria riflessiva, paziente. «No, non sappiamo dove si trova in questo preciso momento. Ma non è necessario. Stasera sarà al mercato e…» Serrò le labbra, poi aggiunse, «Non abbiamo intenzione di violare l’armistizio del mercato. Più che altro di aspettare che lasci il mercato per squartarla…» Rimase un attimo in silenzio, in ascolto, annuendo di quando in quando.

Con la mano libera, Mister Vandemar tentò di estrarre il coltello dal muro, ma si era conficcato con troppa energia.

«Si può fare, certo» disse mister Croup nell’imboccatura. «Voglio dire, sarà fatto. Naturalmente. Si. Lo capisco. E, signore, forse potremmo discutere del…?»

Ma colui che aveva chiamato aveva già interrotto la comunicazione. Mister Croup fissò per un attimo il ricevitore, quindi lo riappese al suo gancio.

«Pensi di essere cosi dannatamente intelligente» bisbigliò. Poi si accorse dell’impiccio in cui si trovava mister Vandemar e disse, «Fermo!» Si chinò, estrasse il coltello dal muro e dal dorso della mano di mister Vandemar, e lo appoggiò sul tavolo.

Mister Vandemar agitò la mano sinistra e piegò le dita, poi tolse i frammenti di intonaco ammuffito dalla lama del coltello. «Chi era?»

«Il nostro datore di lavoro» rispose mister Croup. «Sembra che l’altro non funzioni. Non è abbastanza grande. Dovrà proprio essere la femmina Porta.»

«Perciò non abbiamo più il permesso di ucciderla?»

«Questo, mister Vandemar è il succo della questione, proprio cosi. Ora, sembra che la piccola signorina Porta abbia annunciato che assumerà una guardia del corpo. Al mercato. Questa sera.»

«E allora?» Mister Vandemar si sputò sul dorso della mano, nel punto dove era entrato il coltello, e sul palmo della mano, nel punto dove il coltello era uscito.

Mister Croup sollevò dal pavimento il suo cappotto, pesante, nero e lucido per l’età. Lo indossò.

«E allora, mister Vandemar, perché non assumere anche noi una guardia del corpo?»

Mister Vandemar fece scivolare il coltello al proprio posto, nella custodia dentro la manica. Indossò il cappotto anche lui, infilò con foga le mani in tasca e fu piacevolmente stupito di trovarci quasi mezzo topo. Bene. Era affamato.

Quindi si mise a meditare sull’ultima affermazione di mister Croup con l’intensità di un patologo legale che disseziona il suo unico grande amore, e, accorgendosi della falla nella logica del suo socio, mister Vandemar disse, «Non abbiamo bisogno di una guardia del corpo, mister Croup. Noi facciamo male alla gente. Non sono gli altri a far del male a noi.»

Mister Croup spense le luci.

«Oh, mister Vandemar» disse, gustando il suono delle parole, come gustava il suono di tutte le parole, «se ci tagliamo, non sanguiniamo forse anche noi?»

Mister Vandemar ci pensò sopra un istante, al buio. Poi, con precisione inoppugnabile, disse, «No.»

«Una spia dal Mondo di Sopra» disse Lord-Parla-coi-Ratti. «Sai, dovrei farti un bel taglio dalla gola allo stomaco e predire il futuro con le tue budella.»

«Senti» disse Richard con la schiena contro il muro e lo stiletto di vetro premuto contro il pomo d’Adamo. «Penso che tu stia facendo un grosso errore. Mi chiamo Richard Mayhew. Posso dimostrare la mia identità. Ho la tessera della biblioteca. Le carte di credito. Tante cose» aggiunse disperato.