Выбрать главу

«Sei proprio senza ritegno, vero?»

Lui non rispose.

La ragazza ritornò alla porta. «D’accordo» disse. «Vieni, entriamo.»

Porta appoggiò la mano sinistra sulla porta inchiodata e con la destra strinse la manona scura del Marchese. Delle minuscole dita si intrecciarono ad altre più grandi. Chiuse gli occhi.

… Qualcosa sussurrava e tremava e mutava…

… E la porta crollò nell’oscurità…

Il ricordo era recente, pochi giorni soltanto. Porta si aggirava nella Casa Senza Porte gridando «Sono a casa!» e «C’è nessuno?» Era scivolata con circospezione dall’anticamera in sala da pranzo, in biblioteca, in salotto: nessuna risposta. Non c’era nessuno da nessuna parte. Si trasferì in un ’altra stanza.

La piscina era una struttura vittoriana al coperto, costruita in marmo e ghisa. Suo padre l’aveva trovata da giovane, abbandonata e sul punto di essere demolita, e l’aveva inserita nell’impianto della Casa Senza Porte.

Porta non aveva idea di dove si trovassero le varie stanze della casa, flsicamente. Era stato suo nonno a costruirla, prendendo una camera qui e una là in tutta Londra, stanze separate e prive di porte.

Camminava lungo il bordo della vecchia piscina, contenta di essere a casa. Poi guardò verso il basso.

C’era qualcuno che galleggiava sull’acqua e lasciava dietro di sé due nuvolette gemelle di sangue, una dalla gola, l’altra dall’inguine. Era suo fratello, Arco. Aveva gli occhi spalancati e ciechi.

Si rese conto di avere aperto la bocca. Poteva sentirsi urlare.

«Che male» disse il Marchese. Si massaggiò energicamente la fronte e girò la testa come cercando di alleviare un improvviso attacco di torcicollo.

«È per i ricordi» spiegò Porta. «Sono impressi nei muri.»

Lui sollevò un sopracciglio. «Avresti dovuto avvertirmi.»

«Si» rispose. «Giusto.»

Si trovavano in un’ampia sala bianca. I muri erano tutti coperti di quadri. Ogni quadro rappresentava una stanza diversa.

«Décor interessante» riconobbe il Marchese.

«È il salone d’ingresso. Da qui si può entrare in ogni stanza della Casa. Sono tutte collegate.»

«Dove sono situate le altre camere?»

Porta scosse il capo. «Non lo so. A chilometri da qui, probabilmente. Sono sparse in tutto il Mondo di Sotto.»

Il Marchese era riuscito a coprire l’intera stanza con una serie di lunghi passi impazienti. «Davvero notevole. Una casa associativa, in cui ogni stanza è collocata da un’altra parte. Davvero immaginativa. Tuo nonno era un uomo dalle grandi visioni, Porta.»

«Non l’ho mai conosciuto.» Deglutì, poi riprese, parlando a se stessa quanto a lui, «Avremmo dovuto essere al sicuro qui. Non avrebbe dovuto esserci per nessuno la possibilità di farci del male. Solo la mia famiglia poteva andare in giro per la casa.»

«Speriamo che il diario di tuo padre ci fornisca qualche indizio» commentò il Marchese. «Da dove cominciamo a cercare?»

Si strinse nelle spalle.

«Sei sicura che tenesse un diario?»

Annui. «Era solito andare nel suo studio e isolare i collegamenti finché aveva finito di dettare.»

«Allora cominceremo dallo studio.»

«Ma ci ho guardato. L’ho fatto. Ci ho guardato. Quando stavo ricomponendo il corpo…» E cominciò a piangere, con singhiozzi bassi e rabbiosi, che parevano emergere a fatica dal profondo del cuore.

«Su. Su» disse il Marchese de Carabas, in maniera un po’ goffa, dandole una pacca sulle spalle. Poi, per buona misura, aggiunse, «Su.»

Non era un gran che come confortatore di afflitti.

Gli occhi dallo strano colore di Porta erano colmi di lacrime. «Puoi… puoi concedermi solo un secondo? Starò benissimo.»

Lui annui e camminò fino al punto più lontano della sala. Quando si voltò a guardarla, era ancora là, tutta sola, che si stagliava contro il bianco salone d’ingresso, pieno di quadri di stanze, e si stringeva in un abbraccio solitario, tremando e piangendo come una bambina.

Richard era ancora turbato per avere perso la borsa.

Lord Parla-coi-Ratti non aveva ceduto di una virgola. Aveva sentenziato baldanzoso che il ratto — Padron Codalunga — non aveva assolutamente parlato di restituire a Richard le sue cose. Aveva solo detto di accompagnarlo al mercato.

Poi aveva comunicato a Anestesia che sarebbe spettato a lei di portare l’uomo del Mondo di Sopra al mercato e che, si, era un ordine. E che era ora di smettere di piagnucolare e il momento di mettersi in marcia.

A Richard aveva detto che se lui, Lord Parla-coi-Ratti, l’avesse visto di nuovo, lui, Richard, si sarebbe trovato in guai davvero grossi.

Aveva ribadito che non aveva idea di quanto fosse stato fortunato e, ignorando le sue richieste perché gli restituisse la roba — o almeno il portafogli — li accompagnò a una porta, che poi chiuse a chiave dietro di loro.

Richard e Anestesia camminarono fianco a fianco nel buio.

Lei portava una lampada improvvisata costruita con una candela, una lattina, del filo e una vecchia bottiglietta di tamarindo. Richard si sorprese della rapidità con cui i suoi occhi si adeguarono alla semioscurità. Sembrava stessero passando attraverso una serie di volte sotterranee. In qualche occasione gli parve di cogliere un movimento, negli angoli più lontani delle volte, ma che si trattasse di essere umani, ratti o chissà che altro, quando arrivavano nel luogo in cui si era verificato il guizzo, non c’era più nulla.

Quando tentò di parlare di quei movimenti con Anestesia, lei lo zitti con un sibilo.

Senti una folata gelida sul viso. Di punto in bianco la ragazza-ratto si acquattò, appoggiò a terra la lampada-candela e si mise a tirare e strattonare con forza una grata di metallo fissata nel muro, che si apri di colpo, mandandola a gambe all’aria.

Fece cenno a Richard di entrare.

Lui si chinò e procedette lentamente attraverso il foro nel muro. Dopo una trentina di centimetri, il pavimento finiva.

«Scusa» bisbigliò Richard. «C’è un buco qui.»

«Non è un gran dislivello» gli disse. «Va’ avanti.»

Richiuse la grata dietro di sé. Adesso si trovava scomodamente vicina a Richard. Lui procedette piano, nell’oscurità. Quindi si fermò.

«Tieni» disse la ragazza, dandogli da reggere il manico della piccola lampada, e saltò giù nel buio.

«Ecco» disse. «Non era poi tanto terribile, vero?» Il suo viso si trovava circa un metro al di sotto dei piedi ciondolanti di Richard. «Forza, passami la lampada.»

La abbassò verso di lei, che dovette saltare per afferrarla.

«Bene» bisbigliò. «Vieni.»

Scavalcò il ciglio, rimase sospeso un istante, poi si lasciò andare. Atterrò con mani e piedi nel fango soffice e umido. Si tolse il fango dalle mani pulendole sul maglione.

Pochi passi più in là, Anestesia apri un’altra porta.

La attraversarono, e lei se la chiuse alle spalle.

«Possiamo parlare, adesso» disse. «Non ad alta voce, però possiamo parlare. Se vuoi.»

«Oh. Grazie» fece Richard. Non gli veniva in mente niente da dire. «Perciò… hmmm… tu sei un ratto, è cosi?» chiese.

Lei ridacchiò. «Magari fossi cosi fortunata. Mi piacerebbe. No, io sono una parla-coi-ratti. Noi parliamo ai ratti.»

«Cioè, chiacchierate e basta?»

«Oh, no. Facciamo delle cose per loro. Voglio dire,» e il tono della sua voce sottintendeva che Richard non ci sarebbe mai arrivato da solo a capirlo, «ci sono delle cose che i ratti non possono fare, sai. Voglio dire, non avendo le dita, il pollice, e, insomma, cose. Aspetta…»