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Lei si strinse nelle spalle. «Poche decine. Erano disertori dalla diciannovesima legione, credo. Il mio latino è un po’ approssimativo. Comunque, quando sono tornata qui…»

Fece una pausa e deglutì, gli occhi dallo strano colore colmi di lacrime.

«Ricomponiti» disse bruscamente il Marchese. «Ci serve il diario di tuo padre. Dobbiamo scoprire chi è stato.»

Lo guardò con disapprovazione. «Sappiamo già chi è stato: Croup e Vandemar…»

Lui allargò una mano, e parlò agitando le dita. «Loro sono braccia. Mani. Dita. Ma c’è un cervello dietro a tutto questo, e vuole morta anche te. Quei due non costano certo poco.»

Si guardò intorno nello studio in disordine.

«Il suo diario?» domandò il Marchese.

«Non è qui» rispose Porta. «Te l’ho detto. Ho guardato.»

«Avevo l’errata convinzione che la tua famiglia fosse particolarmente abile nell’individuare aperture, evidenti oppure no.»

Lei lo guardò in cagnesco. Poi chiuse gli occhi e mise pollice e indice ai lati del proprio dorso nasale.

Il Marchese esaminò gli oggetti sulla scrivania di Portico. Un calamaio; un pezzo degli scacchi; un dado in osso; un orologio d’oro da taschino; svariate penne d’oca e…

Interessante.

Era una statuina che rappresentava un cinghiale, o un orso accucciato, o forse un toro. Difficile a dirsi. Aveva le dimensioni di un pezzo degli scacchi piuttosto grande ed era stato intagliato grossolanamente in un blocco di ossidiana nera. Gli ricordava qualcosa, ma non avrebbe saputo dire cosa.

Lo prese in mano, lo voltò. Lo avvolse con le proprie dita.

Porta abbassò la mano. Pareva perplessa e confusa.

«Cosa c’è?» domandò il Marchese.

«È qui» rispose, semplicemente. Iniziò a camminare su e giù per lo studio, la testa piegata ora da un lato ora dall’altro.

Il Marchese fece scivolare la statuina in una tasca interna.

Porta era in piedi davanti a un mobiletto alto. «Qui» disse. Allungò la mano: si udi un click e si apri un piccolo pannello laterale. Porta infilò la mano nella cavità buia, e ne estrasse qualcosa all’incirca della forma e delle dimensioni di una palla da cricket. La passò al Marchese.

Era una sfera, realizzata in ottone antico e legno pregiato, con inserti in rame lucido e lenti di vetro.

Gliela tolse di mano.

«È questo?»

Lei annui.

«Ottimo.»

Aveva un’aria seria. «Non so come ho fatto a non trovarlo prima.»

«Eri sconvolta» disse il Marchese. «Ero certo che fosse qui. E io mi sbaglio cosi di rado. Ora…» e sollevò il piccolo globo di legno. La luce colpi i vetri e rimbalzò dal rame all’ottone.

Gli scocciava moltissimo, ma lo disse comunque: «Come funziona?»

Anestesia aveva portato Richard in un piccolo parco sull’altro lato del ponte, poi gli aveva fatto scendere dei gradini di pietra accanto a un muro. Aveva riacceso la candela e aperto una porta di servizio, che si era poi richiusa alle spalle.

Scesero alcuni scalini, circondati dall’oscurità.

«C’è una ragazza che si chiama Porta» disse Richard. «È poco più giovane di te. La conosci?»

«Lady Porta. So chi è.»

«Quindi, a quale, hmm, baronia appartiene?»

«Nessuna baronia. È della casata degli Arch. La sua famiglia era molto importante.»

«Era? Perché non lo è più?»

«Qualcuno li ha uccisi.»

Già, ricordava che il Marchese aveva detto qualcosa al riguardo.

Un ratto attraversò loro la strada. Anestesia si fermò sui gradini e fece un profondo inchino. Il ratto indugiò un attimo.

«Sire» disse la ragazza.

«Ciao» fece Richard.

Il ratto li guardò il tempo di un battito di ciglia e si lanciò giù dalle scale.

«Allora» disse Richard. «Cos’è un mercato fluttuante?»

«E molto grande» rispose Anestesia. «Ma i parla-coi-ratti non ci vanno quasi mai. A dire la verità…» Esitava a continuare. «No. Rideresti di me.»

«No di certo» disse Richard, convinto.

«Be’,» disse la ragazza magra «ho un po’ di paura.»

«Paura? Del mercato?»

Erano arrivati in cima alla scala. Anestesia era indecisa, poi girò a sinistra. «Oh, no. Durante il mercato c’è l’armistizio. Se uno fa del male a un altro, tutta Londra Sotto gli si riversa addosso come una tonnellata di acqua di scarico.»

«E allora di cosa hai paura?»

«Di arrivarci. Lo tengono ogni volta in un posto diverso. Si sposta. E per arrivare nel posto dove sarà stasera…» prese a giocherellare nervosamente con le perline di quarzo che aveva al collo. «Dovremo attraversare un quartiere proprio brutto.» Sembrava davvero spaventata.

Richard represse l’istinto di passarle un braccio intorno alle spalle.

«E dove sarebbe?» chiese.

Si voltò verso di lui, si tolse i capelli dagli occhi e disse, «Night’s Bridge, il ponte della notte.»

«Vorrai dire Knightsbridge, il ponte dei cavalieri» ribadì Richard, mettendosi a ridacchiare piano per quella pronuncia che falsava il senso.

Lei si allontanò seccata. «Visto?» disse. «L’avevo detto che avresti riso.»

I tunnel profondi erano stati costruiti negli anni Venti per un tratto ad alta velocità della Northern Line. Durante la seconda guerra mondiale, le truppe acquartierate là erano migliaia, e i loro rifiuti dovevano essere pompati al livello superiore, cioè quello delle fogne, con l’aria compressa: entrambi i lati dei tunnel erano stati ricoperti da letti a castello di metallo. Al termine della guerra i letti a castello rimasero dov’erano, e sulle loro basi di rete vennero ammassate delle scatole di cartone, ognuna delle quali conteneva lettere, schedari e carte: segreti del tipo più stupido, depositati giù in fondo per essere dimenticati.

Il sistema economico aveva fatto chiudere definitivamente i tunnel profondi nei primi anni Novanta. Le scatole con i segreti erano state rimosse, per essere conservate nei computer, fatte a pezzi o bruciate.

Varney abitava nella parte più profonda dei tunnel profondi, molto, molto al di sotto della metropolitana di Camden Town. Aveva impilato i letti a castello davanti all’unica entrata, quindi aveva realizzato delle decorazioni. A Varney piacevano le armi. Se le costruiva da solo, utilizzando ciò che riusciva a trovare, a prendere o a rubare. Pezzi di auto e di macchinari venivano trasformati in uncini, coltelli a serramanico, balestre e baliste, piccoli mangani e trabocchi per rompere i muri, clave, spadoni e mazze ferrate. Se ne stavano appese alle pareti del tunnel profondo, oppure appoggiate in un angolo, con aria cattiva.

Varney aveva l’aspetto di un toro, se si riesce a immaginare un toro rasato, senza corna, ricoperto di tatuaggi e i cui denti avessero subito un crollo totale. E russava anche.

La lampada a olio accanto alla testa aveva la fiammella al minimo. Varney dormiva su un mucchio di stracci, russando e tirando su col naso, con l’elsa di una spada a due lame appoggiata al suolo a portata di mano.

Una mano fece aumentare l’intensità della lampada a olio.

Varney teneva stretta la spada a due lame prima ancora di avere aperto gli occhi. Sbatté le palpebre, guardandosi intorno. Non c’era nessuno: niente aveva scomposto la pila di letti a castello che bloccava la porta. Cominciò ad abbassare la spada.

Una voce disse, «Psst.»

«Eh?» fece Varney.

«Sorpresa!» disse mister Croup entrando nel cerchio di luce.

Varney fece un passo indietro: grosso errore. Si trovò un coltello alla tempia, con la punta della lama accanto all’occhio.

«Non sono consigliati ulteriori movimenti» disse mister Croup, servizievole. «A mister Vandemar potrebbe accadere di avere un piccolo incidente con il suo vecchio infilza-rane. La maggior parte degli incidenti si verifica tra le mura domestiche. Non è forse vero, mister Vandemar?»