«Questa, mister Vandermar» disse il più piccolo dei due, agitando una mano unta in direzione del fumo, «sarà davvero una splendida conflagrazione, non appena conflagrerà. Benché un assoluto rispetto per la verità mi imponga di confessare il dubbio che qualcuno degli abitanti sia nella posizione più adatta per apprezzarla appieno.»
«Vuole dire per il fatto che sono morti, mister Croup?» domandò il suo socio. Stava mangiando qualcosa che dall’aspetto poteva essere stato un cucciolo di cane, e adoperava il coltello per staccare grossi pezzi di carne dalla carcassa e metterseli in bocca.
«Per il fatto che, come ha avvedutamente messo in evidenza, mio saggio amico, sono morti.»
Ecco come è possibile distinguere i due che hanno appena parlato: per prima cosa, quando sono in piedi, mister Vandemar è più alto di mister Croup di due teste e mezzo.
Secondariamente, gli occhi di mister Croup sono di uno sbiadito azzurro cobalto, mentre quelli di mister Vandemar sono marroni.
In terzo luogo, mentre mister Vandemar ha ricavato gli anelli che porta alla mano destra utilizzando il teschio di quattro grossi corvi, mister Croup apparentemente non indossa gioielli.
In quarto luogo, a mister Croup piacciono le parole, mentre mister Vandemar ha sempre fame.
Il monastero prese fuoco, con un risucchio d’aria: era conflagrato.
«Non mi piace la salvia» disse mister Vandemar. «Ha uno strano sapore.»
Si udì un grido, poi un potente boato, mentre il tetto crollava, quindi un rombo mentre le fiamme salivano sempre più alte.
«Qualcuno non era morto» commentò mister Croup.
«Adesso lo è» ribatté mister Vandemar, e addentò un’altra fetta di cucciolo crudo. Aveva trovato il suo pasto già morto in un fosso mentre si allontanavano a piedi dal monastero. Amava il sedicesimo secolo.
«E ora?» domandò.
Mister Croup fece un largo sorriso, con denti che parevano un cimitero disastrato. «A circa quattrocento anni da qui» rispose. «Londra Sotto.»
Mister Vandermar mandò giù la notizia insieme a un altro pezzo di cucciolo. Infine chiese, «A uccidere gente?»
«Oh, si» rispose mister Croup. «Questo ritengo proprio di poterglielo garantire.»
UNO
Ormai erano quattro giorni che non smetteva di correre, una sfrenata fuga a capofitto attraverso tunnel e corridoi. Era affamata e stanca, e faceva sempre più fatica ad aprire le nuove porte che le si paravano davanti.
Trovò un posto in cui nascondersi, un minuscolo cunicolo di pietra, sotto al mondo, dove sarebbe stata al sicuro, o almeno cosi sperava e pregava, e finalmente si addormentò.
Mister Croup aveva assunto Ross all’ultimo Mercato Fluttuante, che si era tenuto nell’abbazia di Westminster.
«Lo consideri un canarino» aveva detto a mister Vandemar.
«Perché, canta?» aveva chiesto mister Vandemar.
«Ne dubito; ne dubito nel modo più totale e assoluto. No, mio valente amico, il mio pensiero era metaforicamente associato all’utilizzo che di quegli uccellini viene fatto quando vengono portati in miniera.»
Vandemar fece un cenno di assenso.
Il signor Ross non somigliava a un canarino sotto nessun altro punto di vista: era grande e grosso — quasi quanto mister Vandemar — e sudicio, e parlava ben poco, anche se aveva ritenuto suo dovere chiarire che gli piaceva uccidere, e che era molto bravo; ciò diverti mister Croup e mister Vandemar quanto le vanterie di un giovane Mongolo che avesse appena saccheggiato il suo primo villaggio o dato fuoco a una iurta per la prima volta avrebbero divertito Gengis Khan. Era un canarino e non l’avrebbe mai saputo. Perciò il signor Ross, con la maglietta lercia e i jeans incrostati, andò per primo, mentre Croup e Vandemar, in elegante completo nero, lo seguivano.
Nell’oscurità del tunnel, un fruscio: mister Vandemar aveva in mano il coltello, che non ci restò a lungo perché stava già vibrando dolcemente a una decina di metri di distanza.
Si avvicinò e lo raccolse. Sulla lama era infilzato un ratto, la bocca che si apriva e si chiudeva impotente mentre la vita lo abbandonava. Ne frantumò il cranio tra pollice e indice.
«Ecco un topolino che non andrà più in giro a raccontare storie» commentò mister Croup, sogghignando per la battuta di spirito.
Mister Vandemar non disse nulla.
«Topolino. Storie. Ha capito?»
Mister Vandemar tolse il ratto dal coltello e cominciò a sgranocchiarlo con aria pensosa.
Mister Croup glielo levò di mano con un colpo secco. «La smetta» disse. Mister Vandemar, un po’ accigliato, mise via il coltello.
«Coraggio» sibilò mister Croup per rincuorarlo. «Ci sarà sempre un altro ratto. E adesso avanti! Abbiamo cose da fare. Persone da rovinare.»
Tre anni a Londra non avevano cambiato Richard, anche se era cambiato il suo modo di percepire la città.
Appena arrivato, Londra gli era sembrata immensa, strana e fondamentalmente incomprensibile, con soltanto la piantina della metropolina a dare una parvenza di ordine.
Poco a poco si era reso conto che la piantina della metropolitana era una comoda invenzione che rendeva più semplice la vita, ma non aveva punti in comune con la realtà: come appartenere a un partito politico, aveva pensato una volta, con orgoglio. Poi, dopo avere tentato di spiegare la similitudine tra la mappa della metropolitana e la politica a un perplesso gruppo di sconosciuti incontrati a una festa, aveva deciso per il futuro di lasciare ad altri eventuali commenti sulla politica.
Con il passare del tempo, si era sorpreso a dare Londra per scontata; dopo un po’ aveva cominciato a vantarsi di non avere visitato nessuno dei monumenti (a eccezione della Torre di Londra, quando zia Maude era arrivata in città per un fine settimana e, benché riluttante, era dovuto andare con lei).
Jessica aveva cambiato tutto. Durante dei fine settimana altrimenti ragionevoli, Richard si era ritrovato ad accompagnarla in luoghi come la National Gallery e la Tate Gallery, dove aveva imparato che se si cammina troppo a lungo per le sale di esposizione si ha male ai piedi, che dopo un po’ i grandi tesori dell’arte mondiale finiscono per fondersi e confondersi l’uno con l’altro, e che è quasi al di là delle umane possibilità di comprensione accettare il prezzo sfacciatamente imposto da bar e caffè all’interno dei musei per una fetta di torta e una tazza di tè.
«Ecco il tuo tè e il tuo bigné» le disse. «Avremmo speso meno per comprare uno di quei Tintoretto.»
«Non esagerare» rispose Jessica, allegramente. «E in ogni caso alla Tate non ci sono quadri del Tintoretto.»
«Se avessi preso la torta di ciliege avrebbero potuto permettersi un altro Van Gogh» ribatté Richard.
«No che non avrebbero potuto» disse Jessica piccata.
Richard aveva incontrato Jessica in Francia due anni prima, durante un fine settimana a Parigi; in realtà l’aveva scoperta al Louvre, perché camminando a ritroso nel tentativo di ritrovare il gruppo di colleghi di lavoro che aveva organizzato la gita le aveva pestato un piede mentre lei stava ammirando un diamante di dimensioni e importanza storica davvero notevoli. Dopo avere inizialmente provato a scusarsi in francese, aveva rinunciato e cominciato a scusarsi in inglese, per poi di nuovo tentare di chiedere scusa in francese per avere chiesto scusa in inglese, finché si era accorto che Jessica era inglese che più inglese non si può e quindi, a mo’ di risarcimento, le aveva offerto un costoso panino francese e del succo di mela frizzante incredibilmente caro e, insomma, in verità è cosi che era cominciato tutto.
Dopo di che non era più riuscito a convincere Jessica che non era il tipo di persona che visita musei e gallerie d’arte.
Richard era rimasto intimidito da Jessica, che era bella e spesso anche spiritosa, e che di certo avrebbe fatto strada. Jessica, invece, aveva visto in Richard enormi potenzialità le quali, opportunamente incanalate dalla donna giusta, l’avrebbero reso un perfetto complemento matrimoniale.