«Non credo alle statistiche» rispose la voce di mister Vandemar. Una mano guantata si protese alle spalle di Varney, gli piegò la spada e la lasciò cadere, deformata e ritorta, al suolo.
«Come stai, Varney?» chiese mister Croup. «Bene, c’è da augurarsi! È cosi? In piena forma, con fiocchi e controfiocchi, pronto per il mercato di stasera? Sai chi siamo?»
Varney fece la cosa più simile a un cenno di consenso che non implicasse il movimento di alcun muscolo. Sapeva chi erano Croup e Vandemar.
Con gli occhi scrutava le pareti. Eccola li: la stella del mattino, la mazzafrusto: una sfera di legno munita di punte, ornata di chiodi, appesa a una catena, nell’angolo estremo della stanza…
«Si dice che una certa giovane signora concederà un’audizione per guardie del corpo, questa sera. Hai pensato di presentarti per il posto?» mister Croup si stuzzicò i denti. «Enuncia con chiarezza.»
Con la forza della mente, Varney sollevò la stella del mattino. Era la sua specialità. Piano, ora… dolcemente… La tolse dal gancio e la spinse in alto verso la cima dell’arco del tunnel…
Con la bocca, disse, «Varney è il miglior bravo e guardia del corpo del Mondo di Sotto. Dicono che sono il migliore dai tempi di Hunter.»
Varney posizionò mentalmente la stella del mattino nell’ombra al di sopra e dietro la testa di mister Croup.
Per prima cosa spaccherà il cranio di Croup, poi passerà a Vandemar…
La stella del mattino precipitò verso la testa di mister Croup: Varney si gettò in basso, lontano dalla lama di coltello che gli pesava sull’occhio.
Mister Croup non guardò in alto. Non si voltò. Si limitò a spostare la testa, con una rapidità oscena, e la stella del mattino lo superò andando a fracassarsi a terra, spargendo intorno schegge di mattone e cemento.
Mister Vandemar afferrò Varney con una mano. «Gli faccio male?» chiese al suo socio.
Mister Croup scosse il capo: non ancora. A Varney disse, «Tentativo passabile. Quindi, ’miglior bravo e guardia del corpo’, vogliamo che tu stasera vada al mercato. Vogliamo che tu faccia ciò che serve per diventare la guardia del corpo personale di quella certa giovane signora. Poi, quando hai avuto il posto, c’è una cosa che non devi dimenticare. Puoi anche proteggerla dal resto del mondo ma quando siamo noi a volerla, noi ce la prendiamo. Capito?»
Varney si passò la lingua sui suoi ruderi di denti.
«Mi state corrompendo?» chiese.
Mister Vandemar aveva sollevato la stella del mattino. Con la mano libera stava smontando la catena, anello dopo anello, e lasciava cadere a terra i pezzi di metallo contorto. Tink.
«No» rispose mister Vandemar. Tink. «Ti stiamo intimidendo.» Tink. «E se non fai quello che dice mister Croup, noi ti…» tink «… faremo male…» tink «… molto male, prima di…» tink «… ucciderti, anche peggio.»
«Ah» fece Varney. «Allora lavoro per voi, non è cosi?»
«Si, è cosi» disse mister Croup. «Mi spiace dirlo, ma purtroppo non abbiamo lati positivi.»
«Questo non mi preoccupa» disse Varney.
«Bene» disse mister Croup. «Benvenuto a bordo.»
Si trattava di un marchingegno molto elegante, realizzato in legno di noce, ottone e vetro, rame e specchi, avorio intagliato e intarsiato, prismi di quarzo e ingranaggi di ottone, molle e ruote dentate. Il tutto risultava più grande di un televisore, benché lo schermo vero e proprio non superasse i 15 centimetri. Era una lente d’ingrandimento sullo schermo stesso ad aumentare le dimensioni dell’immagine.
Dal lato sporgeva una grande tromba di ottone, simile a quelle che si trovano sui vecchi grammofoni. Il meccanismo aveva l’aspetto che avrebbe avuto un insieme di televisore e videoregistratore se gli stessi fossero stati inventati e costruiti trecento anni prima da Sir Isaac Newton. Cosa che non si distaccava poi molto dalla realtà.
«Guarda» disse Porta.
Appoggiò la sfera di legno su una piattaforma. Delle luci attraversarono la macchina e illuminarono la sfera, che cominciò a girare e rigirare su se stessa.
Sul piccolo schermo apparve un viso aristocratico, vividamente colorato. Lievemente fuori sincrono, dalla tromba usci una voce crepitante, nel mezzo di un discorso.
«… Che due città debbano essere cosi vicine e tuttavia in ogni cosa tanto lontane; i possidenti sopra di noi, e gli spodestati, noi che viviamo al di sotto e nel mezzo, che abitiamo nelle fenditure.»
Porta fissava lo schermo, pallida in volto.
«… Eppure sono dell’opinione che ciò che rende mutilati, storpi, paralizzati noi abitanti del Mondo di Sotto sia la nostra gretta faziosità. Il sistema di baronie e feudi risulta divisivo e insensato.» Lord Portico indossava una giacca da casa vecchia e lisa, e una papalina. La sua voce sembrava giungere fino a loro attraverso i secoli, non risalire a poche settimane o giorni prima.
Tossì.
«Non sono il solo ad abbracciare tale convinzione. Ci sono alcuni che desiderano vedere le cose come stanno. Ci sono altri che desiderano che la situazione peggiori. Ci sono alcuni…»
«Puoi farlo andare più veloce?» domandò il Marchese.
Porta annui. Toccò una leva d’avorio posta di lato: l’immagine divenne poco più che un’ombra, si frammentò e si riformò.
Ora Portico indossava il cappotto. La papalina era sparita. Aveva un taglio profondo su un lato della fronte. Non era più seduto alla scrivania, e parlava con tono pressante e sommesso. «Non so chi vedrà questo, chi lo ritroverà. Ma chiunque siate, vi prego di portare questo a mia figlia, Lady Porta, se è ancora in vita…» Una scarica elettrostatica attraversò l’immagine e il sonoro.
«Porta? Ragazza mia, questo è male. Non so quanto tempo mi resta prima che scoprano questa stanza. Penso che la mia povera Ianua, tuo fratello e tua sorella siano morti.»
La qualità del suono e dell’immagine cominciava a peggiorare.
Il Marchese lanciò un’occhiata a Porta. Aveva il viso umido: le lacrime traboccavano dai suoi occhi, lasciando una scia lucente sulle guance. Sembrava non rendersi conto di stare piangendo e non tentava in alcun modo di asciugare le lacrime. Si limitava a fissare l’immagine del padre e ad ascoltarne le parole.
Scrack. Bzzz. Scrack. «Ascoltami, ragazza mia» le disse il padre morto. «Va’ da Islington… puoi fidarti di Islington… Credimi… Islington…»
Diventò un’ombra. Il sangue gli era sceso dalla fronte sugli occhi, e lo tolse con la mano. «Porta? Vendicaci. Vendica la tua famiglia.» Dalla tromba del grammofono si udì un forte bang. Portico voltò il capo verso qualcosa non inquadrato nello schermo. Aveva un’aria stupita e impaurita. «Cosa…?»
Usci dall’inquadratura. Per un istante l’immagine rimase immutata: la scrivania, il muro bianco dietro di essa. Poi un arco di sangue rosso acceso schizzò quel muro.
Porta diede un colpetto a una leva laterale, facendo diventare grigio lo schermo, e si girò dall’altra parte.
«Tieni.» Il Marchese le allungò un fazzoletto.
«Grazie.» Si asciugò il viso e si soffiò energicamente il naso. Poi si mise a fissare il vuoto. Alla fine, disse, «Islington.»
«Non ho mai avuto niente a che fare con Islington» disse il Marchese.
«Pensavo fosse solo una leggenda» commentò Porta.
«No di certo.»
Il Marchese si allungò sulla scrivania per prendere l’orologio d’oro da taschino e lo apri. «Ottima lavorazione» commentò.
Lei annui. «Era di mio padre.»
Richiuse il coperchio con un click. «È ora di andare al mercato. Comincia presto. Il Signor Tempo non ci è amico.»
Lei si soffiò di nuovo il naso, quindi affondò le mani nelle tasche della giacca di pelle. Poi si volse verso di lui, il faccino da elfo accigliato, gli occhi dallo strano colore e luminosissimi. «Sei davvero convinto che possiamo trovare una guardia del corpo in grado di affrontare Croup e Vandemar?»