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Si diresse verso il Reparto Alimentari.

Lo stile, per le guardie del corpo, era tutto. A nessuna mancava una specialità di qualche tipo, e non vedevano l’ora di mostrarla al mondo.

In quel momento Ruislip era intento all’ingaggio contro il Damerino Senza Nome.

Il Damerino Senza Nome somigliava un po’ a un libertino dei primi anni del diciottesimo secolo, uno che non riuscendo a trovare dei veri abiti da libertino avesse dovuto arrangiarsi con quanto recuperato a una fiera di beneficenza. Aveva il viso incipriato di bianco e le labbra dipinte.

Ruislip, l’avversario di Damerino, era la rappresentazione del tipo di sogno che si potrebbe fare mentre ci si addormenta guardando un incontro di sumo alla televisione, con un disco di Bob Marley in sottofondo: un gigantesco Rasta che pareva in modo impressionante un bebé obeso e enorme.

Stavano faccia a faccia, nel mezzo di un cerchio formato da spettatori e altre guardie del corpo.

Nessuno dei due uomini muoveva un muscolo.

Il Damerino superava Ruislip di una testa buona. D’altra parte, Ruislip pesava almeno quanto quattro damerini messi assieme, anche se ognuno avesse portato una grossa valigia di pelle straripante di lardo.

Si fissavano, senza mai interrompere il contatto visivo.

Il Marchese de Carabas toccò la spalla di Porta e le fece un cenno. Stava per accadere qualcosa.

Due uomini, che si limitavano a guardarsi…

Poi la testa del Damerino oscillò all’indietro, come fosse stato colpito al volto. Un piccolo livido rosso-violaceo gli comparve sulla guancia. Increspò le labbra e sbatté le ciglia.

«Oh!» disse, quindi distese al massimo le labbra imbellettate, nell’agghiacciante parodia di un sorriso. Gesticolò.

Ruislip barcollò e si portò le mani allo stomaco.

Il Damerino Senza Nome sorrise in modo smaccatamente compiaciuto, agitò le dita e mandò baci agli spettatori.

Ruislip lo fissava con rabbia, mentre ripeteva l’assalto mentale.

Le labbra del Damerino cominciarono a grondare sangue. L’occhio sinistro iniziò a gonfiarsi. Barcollò. Il pubblico rumoreggiava soddisfatto.

«Non è terribile come sembra» bisbigliò il Marchese a Porta.

Il Damerino Senza Nome vacillò, all’improvviso. Cadde in ginocchio come se qualcuno lo stesse spingendo giù, e fini lungo e disteso sul pavimento. Poi sobbalzò, come se qualcuno l’avesse appena preso a calci, con forza, nello stomaco.

Ruislip appariva trionfante. Gli spettatori applaudirono, educatamente. Il Damerino si contorceva, poi sputò sangue sulla segatura che copriva il pavimento del reparto Pesce e Carne di Harrods.

«Il prossimo» disse il Marchese.

Il Damerino venne trascinato in un angolo da alcuni amici e prese a dare violentemente di stomaco.

Anche il successivo aspirante guardia del corpo era più magro di Ruislip (all’incirca come due damerini e mezzo, che portassero però un’unica valigia piena di lardo in due). Era ricoperto di tatuaggi e vestito con abiti che sembravano realizzati unendo vecchi coprisedili per auto e tappetini di gomma. Aveva la testa rasata e scherniva il mondo con i denti marci.

«Sono Varney» disse, si raschiò la gola e sputò sulla segatura un ammasso verdognolo. Si diresse sul ring.

«Signori, quando siete pronti» disse il Marchese.

Ruislip pestò ritmicamente i piedi nudi sul pavimento, uno-due, uno-due, e cominciò a fissare duro Varney. Sulla fronte di Varney si apri un piccolo cratere da cui usciva un rivolo di sangue che gli gocciolava nell’occhio. Varney ignorò la cosa, e parve invece concentrarsi sul braccio destro.

Lo sollevò lentamente, come si opponesse a una foltissima pressione. Poi scaraventò il pugno contro il pomo d’Adamo di Ruislip. Che precipitò al suolo con il rumore di una mezza tonnellata di fegato fresco lasciato cadere in una vasca da bagno.

Varney ridacchiò.

Con estrema lentezza, Ruislip si rimise in piedi.

Varney si pulì il sangue dalla fronte e mostrò al mondo la sua bocca in rovina con un ghigno terrificante. «Vieni» disse. «Grasso segaiolo. Colpiscimi ancora.»

«Quello promette bene» bofonchiò il Marchese.

Porta rabbrividì. «Non ha un aspetto molto gradevole.»

«Gradevole in una guardia del corpo» predicò il Marchese «è utile quanto la capacità di rigurgitare un’aragosta intera. Ha un aspetto pericoloso

In quel mentre ci fu un mormorio di apprezzamento, quando Varney fece qualcosa di piuttosto doloroso a Ruislip, qualcosa di rapido, che implicava l’improvviso contatto tra il ginocchio foderato in similpelle di Varney e i testicoli di Ruislip. Il mormorio era un’approvazione del tipo sobrio e profondamente poco entusiasta che di solito si riscontra solo nei sonnacchiosi pomeriggi domenicali, durante gli incontri di cricket tra paesi limitrofi.

Il Marchese applaudì educatamente con il resto degli astanti. «Ottimo, signore» commentò.

Varney guardò Porta e le fece l’occhiolino, quasi con aria di possesso, prima di rivolgere nuovamente l’attenzione su Ruislip.

Porta rabbrividì.

Richard udì gli applausi e andò in quella direzione.

Venne superato da cinque giovani donne estremamente pallide e vestite in modo pressoché identico. Indossavano lunghi abiti di velluto, tutti scuri al punto da sembrare quasi neri pur essendo rispettivamente verde scuro, marrone scuro, blu notte, sangue intenso e nero vero e proprio.

Tutte avevano i capelli neri e portavano gioielli d’argento; tutte erano pettinate e truccate alla perfezione. Si muovevano in silenzio: solo un fruscio dei pesanti velluti quando passavano, un fruscio che pareva quasi un sospiro.

L’ultima, quella vestita di nero, la più pallida e la più bella, sorrise a Richard.

Che, un po’ circospetto, restituì il sorriso.

Quindi si mosse verso l’audizione.

Si teneva nel reparto Pesce e Carne, nella zona al di sotto della scultura del pesce di Harrods.

Il pubblico gli voltava le spalle e formava un cerchio con due o tre persone una dietro l’altra. Richard si chiedeva se sarebbe stato facile trovare Porta e il Marchese, e in quel momento la folla si apri e li vide, seduti entrambi sul bancone di vetro del salmone affumicato. Aprì la bocca per gridare «Porta!» e mentre lo faceva comprese il motivo per cui la folla si era aperta: un uomo enorme, paralizzato dalla paura, praticamente nudo non fosse stato per il pezzo di stoffa giallo, rosso e verde che gli avvolgeva la parte bassa del torace a mo’ di pannolino, era stato catapultato oltre gli spettatori, come lanciato da un mangano, e gli stava atterrando proprio addosso.

«Richard?» disse la ragazza.

Lui apri gli occhi. La messa a fuoco del viso andava e veniva. Degli occhi dallo strano colore, che fissavano i suoi, in un viso giovane e pallido, quasi da folletto.

«Porta?» fece.

Era furiosa. Era molto più che furiosa.

«Temple e Arch, Richard! Non posso crederci. Che ci fai qui?»

«Anch’io sono contento di vederti» disse debolmente Richard. Si mise a sedere, chiedendosi se avesse una commozione cerebrale. Chiedendosi come poteva scoprirlo. Chiedendosi come aveva potuto pensare che Porta sarebbe stata felice di vederlo.

Lei, le narici frementi, si fissava intensamente le unghie, come non si fidasse a dire altro.

L’omone dall’orribile dentatura, che l’aveva fatto cadere sul ponte, stava lottando contro un nano. Combattevano con delle spranghe di ferro, e la lotta non era impari come avrebbe potuto sembrare. Il nano era straordinariamente veloce: si rotolava, colpiva, rimbalzava, si tuffava; ogni suo movimento faceva apparire Varney goffo e sgraziato al confronto.

Richard si rivolse al Marchese, che guardava il combattimento con attenzione.