Si stava pulendo le unghie con il machete di Varney.
A quel punto mister Croup gli fu addosso, tutto denti, artigli e piccole lame; e Varney non ebbe neppure il tempo di gridare.
«Addio» disse mister Vandemar, impassibile, senza smettere di tagliarsi le unghie.
Allora cominciò a scorrere il sangue. Sangue rosso e tiepido in una quantità spaventosa, dato che Varney era un omone e se l’era tenuto tutto dentro.
Quando mister Croup e mister Vandemar ebbero finito, però, era quasi impossibile notare la minuscola macchiolina di sangue in fondo alla scala a chiocciola.
Alla prima lavata, ogni traccia sarebbe scomparsa per sempre.
Hunter procedeva per prima. Porta camminava nel mezzo. Il Marchese de Carabas si occupava della retroguardia. Nessuno dei tre aveva pronunciato verbo dopo avere lasciato Richard, mezz’ora prima.
All’improvviso Porta si fermò. «Non possiamo farlo» disse con tono piatto. «Non possiamo lasciarlo là da solo.»
«Certo che possiamo» disse il Marchese. «Anzi, l’abbiamo già fatto.»
Lei scosse il capo. Si era sentita colpevole e stupida fin dal momento in cui aveva visto Richard all’audizione, sdraiato sulla schiena sotto il peso di Ruislip. Non le andava proprio.
«Non essere sciocca» disse il Marchese.
«Mi ha salvato la vita» ribadi lei. «Avrebbe potuto lasciarmi sul marciapiede, ma non l’ha fatto.»
Il Marchese alzò un sopracciglio: distaccato, distante, un vero seguace dell’ironia. «Mia cara giovane signora,» disse «non abbiamo in programma di portare con noi un passeggero, durante questa spedizione.»
«Non assumere quell’aria di superiorità con me, de Carabas» disse Porta. Sembrava stanca. «Penso di poter decidere chi viene con noi. Lavori per me anche tu, no? O è vero il contrario?»
Lui la fissò con una freddezza piena di rabbia. «Lui non viene con noi» affermò con un tono che non ammette replica. «E comunque a quest’ora sarà già morto.»
Richard non era morto. Se ne stava seduto al buio, su un cornicione a lato di un canale per le acque piovane, chiedendosi cosa fare, chiedendosi in quali acque infinitamente troppo profonde per le sue possibilità si sarebbe potuto trovare.
Decise che fino a quel momento la vita l’aveva preparato alla perfezione per lavorare in Borsa, fare acquisti al supermercato, guardare la partita di calcio in TV la domenica pomeriggio e accendere il riscaldamento quando aveva freddo. Aveva però totalmente fallito nell’addestrarlo a un’esistenza da non-persona sui tetti e nelle fogne di Londra, a un’esistenza al freddo, all’umido e al buio.
Il baluginio di una luce. Passi che si avvicinano. Se, pensò, si fosse trattato di un branco di assassini, cannibali o mostri, non sarebbe nemmeno stato in grado di provare a battersi. Che lo finissero pure, ne aveva avuto abbastanza. Abbassò gli occhi nell’oscurità e li fissò nel punto in cui avrebbero dovuto trovarsi i suoi piedi. I passi si avvicinarono ulteriormente.
«Richard?» Era la voce di Porta.
Sobbalzò. Poi la ignorò deliberatamente. Se non fosse per te, pensò…
«Richard?»
Non alzò gli occhi. «Cosa?» rispose.
«Senti,» disse lei «tu non ti troveresti in questo guaio se non fosse per me. E non credo che sarai più al sicuro restando con noi, però… Be’…» Si strinse nelle spalle. Un respiro profondo. «Mi dispiace. Vieni?»
«Dato che al momento non ho altri impegni,» disse con una studiata noncuranza che rasentava l’isterismo, «perché no?»
Lei lo abbracciò stretto.
«E cercheremo di farti tornare indietro» disse. «Promesso. Una volta trovato quello che sto cercando.»
Cominciarono a percorrere il tunnel. Richard poteva vedere Hunter e il Marchese che li aspettavano all’entrata. Il Marchese aveva l’aria di uno che è stato costretto a inghiottire della polpa di limone. «E cosa stai cercando?» chiese Richard, il cui morale aveva ripreso leggermente quota.
«È una lunga storia» rispose la ragazza con tono solenne. «Al momento stiamo cercando un angelo di nome Islington.»
Richard scoppiò a ridere. Non riusciva a frenarsi. C’era indubbiamente un po’ di isterismo, ma anche la stanchezza di chi è in qualche modo riuscito a credere a svariate decine di cose incredibili, senza neppure avere prima fatto una colazione decente. La sua risata echeggiò nei tunnel.
«Un angelo?» disse ridacchiando confuso. «Che si chiama Islington come il quartiere?»
«Abbiamo molta strada da fare» disse Porta.
E Richard scosse il capo, sentendosi spremuto, svuotato e defraudato.
«Un angelo» bisbigliò ai tunnel e al buio. «Un angelo!»
Il Gran Salone era tutto ricoperto di candele. C’erano candele accanto ai piloni di ferro che sostenevano il soffitto. Candele in attesa vicino alla cascatella che scendeva da un muro e nel piccolo stagno scavato nella roccia sottostante. Candele raggnippate ai lati del muro di roccia. Candele ammassate sul pavimento. C’erano candele nei candelabri che facevano ala alla grande porta tra due neri piloni di ferro. La porta era realizzata con liscia silice nera inserita in una base d’argento che si era scurita con il passare dei secoli diventando quasi nera anch’essa.
Le candele erano spente, ma al suo passaggio guizzanti fiammelle prendevano vita. Nessuna mano le aveva toccate, nessun fuoco aveva sfiorato i loro stoppini. Il suo abito era semplice e bianco; o più che bianco. Un colore, o un’assenza di colore, cosi luminoso da far trasalire. Aveva i piedi nudi sul freddo pavimento di roccia del Gran Salone. Il viso era pallido, saggio e gentile; e, forse, un po’ malinconico.
Era molto bello.
E in un attimo, tutte le candele del Salone erano accese.
Si arrestò presso lo stagno nella roccia; si inginocchiò vicino all’acqua, mise le mani a coppa, le tuffò nel liquido cristallino e bevve. L’acqua era molto fredda, ma anche molto pura. Terminato di bere chiuse gli occhi per un istante, quasi stesse benedicendo.
Quindi si alzò e se ne andò per dove era venuto, attraversando il Salone; e quando passava le candele si spegnevano, come avevano fatto per decine di migliaia di anni.
Non aveva ali, eppure era senza alcun dubbio un angelo. Islington lasciò il Gran Salone, anche l’ultima candela si spense e tornò il buio.
SEI
Richard scrisse mentalmente un appunto per il suo diario.
Caro Diario, cominciò, venerdì avevo un lavoro, una fidanzata, una casa e una vita che aveva senso. (Be’, per quanto senso possa avere qualunque vita). Poi ho trovato una ragazza ferita e sanguinante sul marciapiede e ho cercato di fare il Buon Samaritano. Adesso non ho più fidanzata, né casa, né lavoro, e me ne vado in giro a quasi un centinaio di metri sotto le strade di Londra con un’aspettativa di vita pari a quella di un’efemera.
«Da questa parte» disse il Marchese.
«Ma non sembrano tutti uguali questi tunnel?» chiese Richard, mettendo temporaneamente da parte le annotazioni per il diario. «Come si fa a capire qual’è uno e qual’è l’altro?»
«Non si capisce» disse il Marchese. «Infatti ci siamo irrimediabilmente persi. Non ci troveranno mai più. Tra un paio di giorni ci uccideremo a vicenda per procurarci il cibo.»
«Sul serio?»
«No.»
Richard riprese a redigere il diario mentale.
Ci sono centinaia di persone in quest’altra Londra. Forse migliaia. Persone che provengono da qui o persone che sono cadute nelle fenditure. Io sto vagando senza meta con una ragazza che si chiama Porta, la sua guardia del corpo e il suo psicotico gran visir. La notte scorsa abbiamo dormito in un piccolo tunnel che secondo Porta una volta era una sezione della fognatura del quartiere di Regency. Quando mi sono addormentato, la guardia del corpo era sveglia, e lo era anche quando mi hanno svegliato. Credo non dorma mai. Per colazione abbiamo avuto della torta di frutta; il Marchese ne aveva in tasca un bel pezzo. Perché mai qualcuno dovrebbe tenersi in tasca delle fette di torta di frutta? Mentre dormivo mi si sono asciugate le scarpe. Quasi del tutto.