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La Stockton possedeva un po’ di tutto: satelliti, quotidiani, case discografiche, parchi di divertimento, libri, periodici, fumetti, stazioni televisive, compagnie cinematografiche.

«Il discorso lo pronuncio subito» disse il signor Stockton a Jessica come preambolo. «Poi me la svigno. Ci torno un’altra volta, senza tutti quei palloni gonfiati tra i piedi.»

«Bene» disse Jessica. «Si. Subito il discorso. Certo.»

Quindi lo condusse al piccolo palco e sul podio. Per ottenere il silenzio fece tintinnare le unghie contro un bicchiere. Nessuno ci fece caso, perciò prese il microfono e disse «Scusatemi.» Questa volta la conversazione si acquietò. «Signore e signori. Stimati ospiti. Vorrei dare a tutti voi il benvenuto al British Museum» disse «e alla mostra, sponsorizzata dalla Stockton, ’Angeli sull’Inghilterra’, e in particolar modo all’uomo cui dobbiamo tutto questo, il nostro direttore generale e presidente del Consiglio di amministrazione, il signor Arnold Stockton.»

Gli ospiti si misero ad applaudire, senza avere dubbi riguardo a chi avesse raccolto la collezione di angeli e, peraltro, pagato lo champagne.

Il signor Stockton si schiari la voce. «Bene» disse. «Non sarà una cosa lunga. Quando ero piccolo, venivo al British Museum al sabato, perché l’ingresso era gratuito e a casa non giravano molti soldi. Però salivo gli alti gradini per raggiungere l’entrata e scendevo in questa sala sul retro per guardare quest’angelo. Era come se sapesse cosa pensavo.»

(Clarence rientrò nella stanza affiancato da un paio di guardie della sicurezza. Indicò Richard, che si era fermato ad ascoltare il discorso del signor Stockton. Porta stava ancora esaminando i pezzi esposti. «No, lui» Clarence continuava a ripetere alle guardie, in tono sommesso. «No, guardate, proprio là. Visto? Lui.»)

«Comunque. Come tutte le cose che non vengono custodite con attenzione» continuò il signor Stockton «è andato in rovina, caduto a pezzi sotto gli stress e le tensioni dei tempi moderni. È marcito. È andato a male. Be’, ci è voluta un carrettata di soldi» fece una pausa per dare maggior peso all’espressione — se lui, Arnold Stockton, pensava fosse una carrettata, di carrettata certamente si trattava — «e decine di artigiani hanno passato un sacco di tempo a restaurarlo e a sistemarlo. Dopo Londra, la mostra andrà in America, poi in tutto il mondo, cosi forse potrà ispirare qualche altro piccolo birbante senza un soldo a costruirsi un impero nelle comunicazioni.»

Si guardò intorno. Rivolto a Jessica mormorò, «E adesso che faccio?»

Lei indicò il cordone a lato del sipario.

Il signor Stockton tirò il cordone e il sipario ondeggiò e si apri, rivelando un vecchio portale.

(«No. Lui» disse Clarence. «Per la miseria! Ma siete ciechi?»)

Poteva essere stato l’ingresso di una cattedrale. Era alto come due uomini e abbastanza largo perché ci passasse un pony. Intagliato nel legno del portale e dipinto in rosso, bianco e lamina d’oro, c’era un angelo straordinario. Che fissava il mondo con vuoti occhi medievali.

Gli ospiti fecero un oh! di stupore, quindi applaudirono.

«L’Angelus!» Porta si era messa a tirare la manica di Richard. «Eccolo! Richard, vieni!»

Corse verso il palco.

«Mi scusi, signore» disse una guardia rivolta a Richard. «Possiamo vedere il suo invito?» aggiunse un’altra, afferrandolo saldamente, ma con discrezione, per un braccio. «Ha un documento?»

«No» rispose Richard.

Porta era sul palco. Richard tentò di liberarsi con uno strattone, nella speranza che le guardie si dimenticassero di lui. Non lo fecero.

Una volta preso in custodia, intendevano trattarlo come avrebbero fatto con qualsiasi altro trasandato, sporco e mal rasato intruso. La guardia che teneva Richard per il braccio accentuò la stretta, mormorando: «Non pensarci nemmeno!»

Sul palco, Porta si era fermata, chiedendosi come fare affinché le guardie liberassero Richard. Quindi fece l’unica cosa che le venne in mente. Si avvicinò al microfono, si alzò in punta di piedi e si mise a urlare con quanto fiato aveva in gola nel sistema di diffusione sonora.

Il suo strillo era notevole: senza alcun aiuto esterno poteva attraversare il cervello come un trapano superpotente con segaossi incorporato. E amplificato…

Una cameriera lasciò cadere il vassoio con i bicchieri. Teste che si voltavano. Mani che coprivano le orecchie. Interruzione di ogni conversazione. La gente fissava il palco sconcertata e inorridita.

E Richard ne approfittò per liberarsi con uno strattone e scappare via, dicendo alla guardia sbigottita, «Mi dispiace, ho sbagliato Londra.»

Raggiunse il palco e afferrò la mano sinistra di Porta, tesa verso di lui. Con la mano destra la ragazza toccò l’Angelus, l’enorme portone di cattedrale. Lo toccò e lo aprì.

Questa volta nessuno lasciò cadere il bicchiere. Erano pietrificati, lo sguardo fisso, del tutto sopraffatti — e, momentaneamente, accecati. L’Angelus si era aperto, e da dietro il portale la luce aveva invaso la stanza di fulgore. Gli invitati si erano coperti gli occhi, poi, esitanti, avevano provato a riaprirli ed erano semplicemente rimasti attoniti a fissare. Era come se in quella sala fossero stati sparati dei fuochi d’artificio. Non fuochi da interno, quegli strani bastoncini su cui i lampi di luce scoppiettanti si arrampicano lentamente per lasciare un cattivo odore una volta spenti; e neppure quelli che si accendono in giardino, ma veri e propri fuochi da professionisti, quelli che vengono sparati cosi in alto da creare problemi agli aeroplani: quelli che chiudono una giornata a Disneyland o fanno venire l’emicrania ai vigili del fuoco ai concerti dei Pink Floyd. Era un momento di magia pura.

Il pubblico guardava, estasiato e stupito. L’unico rumore che si sentiva era il lieve, ansimante mormorio di meraviglia che la gente fa quando guarda i fuochi artificiali: il suono della soggezione.

Poi un giovane sudicio e una ragazza con il viso imbrattato di fuliggine che indossava una giacca di pelle troppo grande entrarono in quello spettacolo di luce e scomparvero. Il portale si richiuse dietro di loro. I giochi di luce erano terminati.

E tutto era di nuovo normale. Gli ospiti, le guardie, i camerieri strizzarono gli occhi, scossero le rispettive teste e, avendo avuto a che fare con qualcosa del tutto al di fuori della loro esperienza, si ritrovarono in qualche modo d’accordo, senza aver detto una parola, che in realtà non era accaduto nulla.

Il quartetto d’archi riprese a suonare.

Il signor Stockton se ne andò, dopo aver salutato con un brusco cenno del capo i vari conoscenti che stavano tra lui e l’uscita.

Jessica si avvicinò a Clarence. «Cosa ci fanno qui» chiese gentilmente «quegli uomini della sicurezza?»

Le guardie in questione se ne stavano in mezzo agli ospiti, e si guardavano attorno come se fossero altrettanto incerte sul da farsi.

Clarence cominciò a spiegare il motivo per cui le guardie si trovavano là, ma si rese conto di non averne la benché minima idea. «Me ne occupo io» disse, sempre efficente.

Jessica annui. Diede un’occhiata alla sua festa e sorrise benignamente. Stava andando tutto decisamente bene.

Richard e Porta entrarono nella luce. Poi, all’improvviso, diventò buio, e fresco, e Richard socchiuse gli occhi per l’immagine residua della luce sulla retina, che lo aveva lasciato quasi cieco: un evanescente alone verde-arancio che scompariva piano piano mentre gli occhi si abituavano all’oscurità che li circondava.

Si trovavano in un salone molto ampio, scavato nella roccia. I piloni di ferro che reggevano il soffitto, neri e coperti di ruggine, proseguivano fino nel buio più lontano, forse per chilometri. Scaturito da un angolo non meglio identificato poteva sentire un dolce rumore di acqua corrente: una fontana, forse, o una piccola cascata. Porta gli stava ancora tenendo la mano, stretta.