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Con un grugnito, Hunter lasciò cadere il corpo inanimato di Richard Mayhew su un cumulo di paglia. Lui si rotolò nella paglia, disse qualcosa che suonava come «Forsta griugli brufluf paf» e si rimise a dormire.

Accanto a lui adagiò anche Porta, ma più gentilmente. Poi si accovacciò vicino alla ragazza, nella buia scuderia sotterranea, sempre all’erta.

Il Marchese de Carabas era esausto. Si appoggiò contro il muro del tunnel a fissare i gradini che gli si paravano davanti. Quindi estrasse l’orologio da taschino d’oro e controllò l’ora. Erano passati trentacinque minuti dal momento in cui aveva lasciato lo scantinato dell’ospedale.

«È già un’ora?» chiese mister Vandemar.

Era seduto sui gradini di fronte al Marchese, e si esplorava le narici con un coltello.

«Neanche per sogno» disse il Marchese con il fiato corto.

«Sembrava un’ora» disse mister Vandemar.

Il mondo tremò, ed ecco mister Croup accanto al Marchese de Carabas. Gli era rimasta ancora qualche traccia di polvere sul mento.

De Carabas fissò mister Croup. Si voltò a guardare mister Vandemar. Poi, involontariamente, scoppiò a ridere.

Mister Croup sorrise. «Ci trovi buffi, vero messer Marchese? Una fonte di divertimento. Non è cosi? Con i nostri bei vestiti e le nostre involute circumlocuzioni…»

Mister Vandemar mormorò «Io non ce l’ho una circumlo…»

«… E le nostre sciocchezzuole nelle maniere e nei modi. E forse siamo buffi.» In quel momento mister Croup sollevò un dito e lo agitò verso de Carabas. «Ma, messer Marchese, non devi mai credere che solo perché una cosa è buffa non possa anche essere pericolosa.»

E mister Vandemar lanciò con forza e accuratezza il coltello contro il Marchese, che fu colpito alla tempia con il manico. Gli si rivoltarono gli occhi, e le ginocchia cedettero.

«Circumlocuzione» spiegò mister Croup «è un modo di parlare intorno a qualcosa. Una digressione. Verbosità.»

Mister Vandemar sollevò il Marchese de Carabas afferrandolo per la cintura e lo trascinò su per le scale, la testa che sbatacchiava rumorosamente contro ogni scalino.

Mister Vandemar fece un cenno di assenso. «Ero curioso» disse.

Sapeva che li stava aspettando. Ogni tunnel che percorreva, ogni svolta, ogni diramazione, la percezione cresceva, sempre più pressante e più pesante. La sensazione di catastrofe imminente aumentava a ogni passo.

Avrebbe dovuto sentirsi sollevato quando aveva svoltato l’ultimo angolo e l’aveva vista là, in piedi, incorniciata dal tunnel, ad attenderlo. Invece, provò soltanto paura.

Nel sogno era grande come il mondo. Non c’era altro che la Bestia, dai fianchi fumanti. Dalla sua pelle spuntavano lance spezzate e frammenti di vecchie armi. Sulle corna e sulle zanne c’era del sangue rappreso. Era grassa, enorme e cattiva.

E la Bestia caricò.

Sollevò la mano (ma non era la sua mano) e scagliò la lancia contro la creatura.

Vide i suoi occhi, rossi, maligni e gongolanti, che fluttuavano verso di lui, il tutto in una frazione di secondo che divenne una minuscola eternità. E poi fu su di lui…

L’acqua era fredda, e colpi il viso di Richard come uno schiaffo. Spalancò gli occhi e trattenne il respiro.

Hunter lo guardava dall’alto in basso. Teneva in mano un grosso secchiello di legno. Vuoto.

Allungò una mano e constatò di avere i capelli zuppi. Si tolse l’acqua dagli occhi e rabbrividì.

«Non c’era bisogno che lo facessi» disse Richard. Dal sapore che aveva in bocca pareva che numerosi animaletti l’avessero usata come gabinetto, prima di liquefarsi in qualcosa di vagamente verdognolo. Cercò di mettersi in piedi, ma si risedette di colpo. «Ooh!» spiegò.

«Come va la testa?» chiese Hunter con tono professionale.

«È stata meglio» rispose Richard.

Hunter prese un altro secchiello di legno, questa volta pieno d’acqua, e lo trascinò sul pavimento della scuderia. «Non so cosa avete bevuto,» disse «ma doveva essere molto potente.»

Hunter tuffò la mano nel secchiello e la agitò davanti al viso di Porta, spruzzandolo d’acqua. Gli occhi della ragazza sbatterono leggermente.

«Non c’è da meravigliarsi che Atlantide sia affondata» borbottò Richard. «Se la mattina si sentivano tutti cosi, con ogni probabilità è stato un sollievo. Dove siamo?»

Hunter spruzzò dell’altra acqua sul viso di Porta. «Nelle scuderie di un’amica» rispose.

Richard si guardò attorno. In effetti il luogo poteva avere l’aspetto di una scuderia. Si chiese dove fossero i cavalli — che tipo di cavalli potrebbe vivere sottoterra? Sul muro era dipinto uno stemma: la lettera S (o si trattava forse di un serpente? Richard non era in grado di stabilirlo) circondata da un cerchio formato da sette stelle.

Porta allungò una mano incerta verso la propria testa e la toccò con circospezione, quasi non fosse sicura di cosa avrebbe trovato. «Ooh» disse in un sussurro o poco più. «Per Temple e Arch! Sono morta?»

«No» rispose Hunter.

«Peccato.»

Hunter la aiutò ad assumere una posizione eretta. «Be’,» commentò Porta insonnolita «ci aveva avvertiti che era forte.»

Poi Porta si svegliò completamente, di colpo, in fretta. Afferrò la spalla di Richard e puntò il dito verso lo stemma sul muro, la S sinuosa come un serpente circondata di stelle. Rimase senza fiato, e sembrava in tutto e per tutto un topo che si è appena accorto di essersi svegliato in un allevamento di gatti.

«Serpentine!» disse a Richard, a Hunter. «È il cimiero di Serpentine. Richard, alzati! Dobbiamo scappare — prima che scopra che siamo qui…»

«E tu pensi» disse una voce asciutta dalla soglia «di poter entrare nella casa di Serpentine senza che Serpentine lo sappia, bambina?»

Porta indietreggiò contro il legno che copriva i muri della scuderia. Tremava. Nonostante il martellamento che aveva in testa, Richard si rese conto di non aver mai visto Porta spaventata, finora.

Serpentine era rimasta sulla soglia. Indossava un corsetto di pelle bianca, alti stivali di pelle dello stesso colore e i resti di quello che sembrava essere stato, tanto tempo prima, un vestito da sposa in seta e pizzo decisamente fru fru, e che ora era ridotto a brandelli, strappato e macchiato di fango. Torreggiava su tutti loro: la folta e arruffata massa di capelli che cominciavano a ingrigire sfiorava l’architrave della porta. Aveva occhi penetranti, e la bocca era uno squarcio crudele su un volto autoritario.

Guardò Porta come se pensasse che il terrore le fosse dovuto, come se non fosse solo avvezza alla paura, ma se l’aspettasse, addirittura la desiderasse.

«Calmati» disse Hunter.

«Ma è Serpentine» piagnucolò Porta. «Delle Sette Sorelle.»

Serpentine inclinò cortesemente il capo. Poi si allontanò dalla soglia. Dietro di lei c’era una donna magra dal viso severo e dai lunghi capelli scuri, che indossava un vestito nero stretto alla vita sottile. La donna non disse nulla.

Serpentine raggiunse Hunter.

«Hunter ha lavorato per me, tanto tempo fa» disse Serpentine. Allungò un dito bianco e accarezzò dolcemente la guancia bruna di Hunter, un gesto di possesso e di affetto. Poi, «Hai badato al tuo aspetto meglio di me, Hunter.»

Hunter abbassò lo sguardo.

«I suoi amici sono miei amici, bambina» disse Serpentine. «Sei Porta?»

«Si» rispose Porta, la bocca arida.

Serpentine si rivolse a Richard. «E tu cosa sei?» chiese, per niente impressionata.

«Richard» rispose lui.

«Io sono Serpentine» gli disse con cortesia.

«Cosi ho arguito» commentò Richard.

«C’è del cibo che vi aspetta» disse Serpentine «se desiderate interrompere il vostro digiuno.»