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«Oddio, no» gemette educatamente Richard.

Porta non apri bocca. Era ancora con le spalle contro il muro, e ancora tremava dolcemente, come una foglia nella brezza estiva.

«Che c’è da mangiare?» chiese Hunter.

Serpentine guardò la donna dal vitino di vespa rimasta sulla soglia. «Be’?» fece.

La donna ammiccò con il sorriso più freddo che Richard avesse mai visto solcare un volto umano. Quindi disse «Uova fritte uova in camicia uova in salamoia cervo al curry cipolle in salamoia aringhe in salamoia aringhe affumicate aringhe sotto sale funghi in umido bacon salato cavolo ripieno stufato di montone gelatina di stinco di vitello…»

Richard apri la bocca per implorarla di smettere, ma era troppo tardi. Improvvisamente, violentemente, disperatamente, diede di stomaco.

Voleva qualcuno che lo sostenesse e gli dicesse che sarebbe andato tutto bene, che presto si sarebbe sentito meglio; qualcuno che gli desse un’aspirina e un bicchiere d’acqua, e lo riportasse nel suo letto. Ma nessuno lo fece; e il suo letto distava un’altra vita da li. Si lavò il vomito dal viso e dalle mani con l’acqua del secchiello. Poi si sciacquò la bocca con cura. Quindi, oscillando lievemente, segui le quattro donne per la prima colazione.

«Passami la gelatina di stinco di vitello» disse Hunter con la bocca piena.

La sala da pranzo di Serpentine era posta su quella che a Richard parve la più piccola banchina di metropolitana mai vista. Era lunga circa quattro metri, la maggior parte dei quali era occupata da un tavolo da pranzo su cui era stata stesa una tovaglia di damasco bianco, apparecchiato in modo molto formale e ricco di argenti. Il tavolo era sommerso di cibarie maleodoranti. Secondo Richard, la puzza peggiore proveniva dalle uova di quaglia in salamoia.

La pelle di Richard sembrava appiccicaticcia, gli occhi parevano essere stati inseriti male, mentre il cranio dava la vaga impressione di essere stato scambiato con uno di due o tre misure più piccolo.

Un treno della metropolitana passò a qualche centimetro da loro, e il vento causato dal suo passaggio sferzò la tavola imbandita. Il rumore del treno attraversò la testa di Richard come un coltello rovente che sezioni un cervello. Emise un lamento.

«Il tuo eroe non regge il vino, a quanto pare» osservò imperturbabile Serpentine.

«Non è il mio eroe» disse Porta.

«Invece ho paura che lo sia. Si impara a riconoscere il genere. Qualcosa negli occhi, forse.» Si rivolse alla donna in nero, che a quanto pareva fungeva da una sorta di maggiordomo. «Un tonico per il signore.»

La donna fece un sorriso secco e scivolò via.

Porta si servi dal piatto di funghi. «Ti siamo molto grati per tutto questo, Lady Serpentine» disse.

Serpentine arricciò il naso con disprezzo. «Solo Serpentine, bambina. Non ho tempo per stupidi titoli onorifici. Dunque, tu sei la figlia maggiore di Portico.»

«Si.»

Serpentine tuffò un dito nella salsa salmastra che conteneva quelle che sembravano numerose piccole anguille. Si leccò il dito e fece un cenno di approvazione. «Non ho mai avuto molto in comune con tuo padre. Tutte quelle ridicolaggini sul fatto di riunire il Mondo di Sotto. Stupidaggini, balle! Che uomo sciocco. Andava solo in cerca di guai. L’ultima volta che l’ho visto gli ho detto che se avesse rimesso piede qui l’avrei trasformato in un orbettino.» Si rivolse a Porta. «A proposito, come sta tuo padre?»

«È morto» rispose Porta.

Serpentine sembrava molto soddisfatta. «Visto?» commentò. «Proprio come dicevo io.»

Porta, invece, non disse nulla.

Serpentine afferrò qualcosa che aveva tra i capelli e lo esaminò con attenzione, per poi schiacciarlo tra pollice e indice e lasciarlo cadere sulla banchina. Quindi si rivolse a Hunter, che stava divorando una montagnola di aringhe in salamoia. «Sei a caccia della Bestia, allora?» disse.

Hunter fece cenno di si, con la bocca piena.

«Di sicuro ti servirà una lancia» continuò Serpentine.

La donna dal vitino di vespa si trovava ora accanto a Richard, con in mano un piccolo vassoio. Sul vassoio c’era un bicchierino contenente un liquido dall’aggressivo color smeraldo. Richard lo fissò, poi guardò Porta.

«Cosa gli dai?» chiese Porta.

«Niente che possa fargli male» disse Serpentine con un sorriso glaciale. «Siete ospiti.»

Richard tracannò il liquido verde, che sapeva di timo, menta piperita e mattine d’inverno.

Lo senti scendere, e si preparò a cercare di evitare che risalisse. Fece un respiro profondo e si accorse con un po’ di stupore che invece la testa non gli doleva più.

E che aveva una gran fame.

Old Bailey non era, intrinsecamente, una di quelle persone messe al mondo per raccontare barzellette. Nonostante questo handicap, continuava imperterrito a raccontarle. Le barzellette che si ostinava a riferire tendevano a essere storielle eccessivamente lunghe dal finale paradossale, di norma un infelice gioco di parole che, peraltro, spesso e volentieri Old Bailey non riusciva a ricordare al momento giusto.

Gli unici ascoltatori delle barzellette di Old Bailey erano i suoi uccelli in gabbia e, in particolare i corvi comuni, vedevano le storielle come parabole profonde e filosofiche recanti profondi e penetranti indicazioni di ciò che significa essere umani, e in realtà ogni tanto gli chiedevano di raccontarne qualcuna.

«Va bene, va bene, va bene» stava dicendo Old Bailey. «Se l’avete già sentita, fermatemi. C’è un uomo che entra in un bar. No, non era un uomo. È per questo che fa ridere. Scusate. Era un cavallo. Un cavallo… no… un filo. Tre fili. D’accordo. Tre fili entrano in un bar.»

Un gigantesco vecchio corvo gracchiò una domanda.

Old Bailey si sfregò il mento, poi si strinse nelle spalle. «Lo fanno e basta. È una barzelletta. Nelle barzellette possono camminare. Chiede un drink per sé e per i suoi amici. E il barista dice, qui non serviamo i fili. A un filo. Questo torna dagli amici e riferisce che in quel bar non servono i fili. Vedete, è una storiella, perciò anche il secondo filo va dal barista, e gli altri restano al tavolo, perché sono in tre, giusto? Finché l’ultimo, invece di andare al bancone, ordina il drink ad alta voce da lontano…»

Il corvo gracchiò di nuovo, con espressione saggia.

«I drink. Va bene, sono tre. E il barista, arrivato al tavolo con i bicchieri, gli fa, ehi, ma non sei un pezzo di filo anche tu? E il filo gli risponde, no di certo, non ti sei accorto che sono solo un gran filone? Capito? Filo, filone. È una battuta. Molto, molto divertente.»

Gli storni rumoreggiarono educatamente. I corvi annuirono e chinarono la testa da un lato. Poi il corvo più anziano gracchiò di nuovo qualcosa a Old Bailey.

«Un’altra? Non sono mica fatto di ilarità, io. Lasciatemi pensare…»

Dalla tenda si udì un rumore. Un suono profondo e pulsante, come il battito di un cuore lontano. Old Bailey si precipitò dentro. Il rumore proveniva da una cassapanca di legno in cui teneva le cose di maggior valore. Apri la cassapanca.

Il battito divenne molto, molto più forte.

La scatolina d’argento era posta in cima ai tesori di Old Bailey. Allungò una mano nodosa e la prese. Dentro, una luce rossa pulsava e brillava ritmicamente, come un cuore che batte, e risplendeva all’esterno attraverso la filigrana, le incrinature e le cerniere.

«È nei guai» disse Old Bailey.

Il corvo più vecchio gracchiò una domanda.

«Il Marchese» rispose Old Bailey. «È in grossi guai.»

Quando Serpentine allontanò la sedia dal tavolo, Richard era a metà del secondo piatto di cibo.

«Penso di avere adempiuto ai miei doveri di ospite» disse. «Bambina, giovanotto, buon giorno. Hunter…» fece una pausa. Quindi passò un dito simile a un artiglio lungo la linea della mascella di Hunter. «Hunter, sei sempre la benvenuta.»