Rivolse loro un imperioso cenno del capo e si alzò, per andarsene seguita dal suo maggiordomo dal vitino di vespa.
«E meglio incamminarci, adesso» disse Hunter. Si alzò da tavola, quindi Porta e, con maggiore riluttanza, Richard, la seguirono.
Percorsero un lungo corridoio, cosi stretto che potevano passare soltanto uno alla volta. Salirono dei gradini di pietra. Nel buio, attraversarono un ponte di ferro, mentre i treni del metrò echeggiavano sotto di loro. Poi entrarono in quella che pareva una rete infinita di volte sotterranee, che avevano l’odore dell’umido e del marcio, dei mattoni, della pietra e del tempo.
«Allora quella era il tuo vecchio capo, eh? Sembrava abbastanza simpatica» disse Richard a Hunter.
Hunter non commentò.
Porta, che si era sentita come soggiogata, disse: «Nel Mondo di Sotto, quando si vuole che un bambino si comporti come si deve gli si dice: ’Fai il bravo, altrimenti Serpentine ti porta via’.»
«Oh» fece Richard. «E tu hai lavorato per lei, Hunter?»
«Ho lavorato per tutte le Sette Sorelle.»
«Pensavo che non si parlassero da, be’, da almeno trent’anni» disse Porta.
«Più che possibile. Ma allora si parlavano ancora.»
«Ma quanti anni hai?» domandò Porta. Richard era contento che l’avesse chiesto, perché lui non avrebbe mai osato.
«Sono vecchia quanto la mia lingua,» rispose Hunter «ma un pochino più vecchia dei miei denti.»
«Comunque,» disse Richard, con il tono di voce di uno che si è ripreso dai postumi di una sbronza e sa che, da qualche parte sopra di lui, qualcun altro sta passando una splendida giornata, «è andato tutto bene. Ottimo cibo. E nessuno ha cercato di ucciderci.»
«Sono certa che a questo rimedieremo presto» ribatté Hunter, sempre precisa. «Da quale parte per i Black Friars, mia signora?»
Porta si fermò per concentrarsi.
«Seguiremo la via del fiume» disse. «Per di qua.»
«Non è ancora rinvenuto?» chiese mister Croup.
Mister Vandemar pungolò il corpo prostrato del Marchese con un dito lunghissimo. Il respiro era debole. «Non ancora, mister Croup. Credo di averlo rotto.»
«Dovrebbe stare più attento con i suoi giocattoli, mister Vandemar» disse mister Croup.
UNDICI
«Allora, a cosa stai dietro?» Richard chiese a Hunter.
I tre stavano camminando lungo l’argine di un fiume sotterraneo. Richard fissava con rispetto l’acqua grigia che scorreva e precipitava poco distante. Non era il tipo di fiume da cui, se cadi, puoi risalire. Era dell’altro genere.
«Dietro?»
«Be’,» continuò «io sto cercando di ritornare nella Londra vera e alla mia vecchia vita. Porta vuole scoprire chi ha ucciso la sua famiglia. Tu, cosa vuoi ottenere?»
Si arrampicarono a fatica lungo l’argine, un passo per volta, Hunter in testa.
Non diceva nulla.
Il fiume rallentava per alimentare un laghetto sotterraneo. Camminavano a lato dello stagno, con le lampade che si riflettevano sull’acqua nera, l’effetto smorzato dalla nebbiolina sul fiume.
«Allora, di che si tratta?» domandò Richard, che in realtà non si aspettava di ricevere risposta.
La voce di Hunter era pacata e intensa. Non cambiò passo. «Nelle fogne sotto New York ho lottato con il grande re alligatore bianco e cieco. Era lungo dieci metri, grasso per i residui di fogna e feroce in battaglia. Ho avuto la meglio su di lui e l’ho ucciso. Nel buio, i suoi occhi parevano enormi perle.»
La voce dallo strano accento echeggiava nel sottosuolo, avvolta nella bruma.
«Ho combattuto l’orso che stava appostato nella città sotto Berlino. Aveva ucciso migliaia di uomini e i suoi artigli erano macchiati di nero e marrone per il sangue secco di centinaia di anni, ma io l’ho abbattuto. Mentre moriva ha bisbigliato delle parole in una lingua umana.»
La nebbiolina continuava a fluttuare bassa sul fiume. Richard immaginò di poter vedere le creature di cui Hunter parlava, bianche figure che si contorcevano nel vapore.
«C’era una tigre nera, nella sottocittà di Calcutta. Una mangiatrice di uomini, intelligente e implacabile, grande quanto un piccolo elefante. Una tigre è un degno avversario. L’ho catturata a mani nude.»
Richard diede un’occhiata a Porta. Stava ascoltando Hunter con grande attenzione: allora erano informazioni nuove anche per lei.
«E annienterò la Bestia di Londra. Dicono che la sua pelle sia irta di spade, lance e pugnali conficcati da quanti hanno tentato e fallito. Le sue zanne sono rasoi, i suoi zoccoli sono fulmini.
«L’ucciderò, o morirò nel tentativo.»
Le brillavano gli occhi, come stesse contemplando la preda. La bruma sul fiume cominciava a trasformarsi in densa nebbia gialla.
Una campana, poco distante, batté tre rintocchi e il suono si propagò sull’acqua.
Cominciava a rischiarare. Richard credette di poter vedere intorno a loro la sagoma di alcuni edifici. La nebbia giallo-verde diventò più fitta: sapeva di cenere e del sudiciume di un migliaio di anni urbani. Aderiva alle lampade, smorzando la luce.
«Che cos’è?» chiese Richard.
«Nebbia di Londra» rispose Hunter.
«Ma non doveva essere scomparsa anni fa? La legge per l’aria pulita e roba simile?» Richard provò a ricordare i libri di Sherlock Holmes della sua infanzia. «Com’è che la chiamavano anche?»
«Zuppa di piselli» disse Porta. «Caratteristica distintiva di Londra. Nel Mondo di Sopra non ce n’è più una cosi da, oh, quarant’anni. Quaggiù ce ne arrivano i fantasmi. Hmm. No, non sono fantasmi. Echi, piuttosto.»
Richard respirò in un filamento di nebbia giallo-verde e cominciò a tossire.
«Questo non è un buon segno» disse Porta.
«Ho solo della nebbia in gola» spiegò Richard.
Il terreno diventava più appiccicoso, più fangoso: mentre Richard camminava, gli si era avvinghiato ai piedi.
«Comunque,» disse per farsi coraggio «un po’ di nebbia non ha mai fatto male a nessuno.»
Porta lo guardò con i grandi occhi da folletto. «Ce n’è stata una nel 1952 che si calcola abbia ucciso quattromila persone.»
«Gente di qui?» chiese. «Di Londra Sotto?»
«La tua gente» disse Hunter.
Richard era propenso a crederci. Pensò di trattenere il respiro, ma la nebbia diventava sempre più fitta. Il terreno sempre più molle. «Non capisco. Perché qui avete le nebbie se da noi non ci sono più?»
Porta si grattò il naso. «A Londra esistono delle piccole bolle dei tempi passati, dove i luoghi e le cose rimangono come una volta, simili alle bolle nell’ambra» spiegò. «A Londra c’è molto tempo, e deve andare da qualche parte — non viene usato tutto in una volta.»
«Sarebbe più semplice se soffrissi ancora dei postumi del vino» sospirò Richard. «Almeno quello aveva senso.»
L’Abate sapeva che quel giorno avrebbe portato dei pellegrini. La conoscenza era parte dei suoi sogni; lo circondava, come l’oscurità. Quindi il giorno divenne giorno d’attesa, cosa che era, lo sapeva bene, un peccato: i momenti devono essere sperimentati; aspettare è un peccato contro il tempo che deve ancora venire e contro gli istanti presenti che vengono trascurati.
Tuttavia, aspettava.
Durante ognuno dei servizi quotidiani, durante i magri pasti, l’Abate era in vigile ascolto, in attesa che la campana suonasse, in attesa di sapere chi e quanti.
Si trovò a sperare in una morte rapida e pulita. L’ultimo pellegrino aveva resistito per quasi un anno, un essere urlante e farfugliante. L’Abate non considerava la propria cecità come una benedizione né come una maledizione: semplicemente esisteva; ma anche stando cosi le cose, era grato di non aver potuto vedere il volto di quella povera creatura. Fratello Ebano, che se ne era occupato, si svegliava ancora la notte, urlando, con quel viso contorto davanti agli occhi.